Autore: Rob

La vita che vogliamo

La vita è meravigliosa.

La vita di una cellula primordiale che si organizza in altre cellule primordiali nate praticamente dal nulla è meravigliosa.

La vita della Natura che si risveglia a Primavera in mille profumi e colori è meravigliosa.

La vita nel gesto generoso e disinteressato di un uomo buono è meravigliosa.

La vita nel sorriso di un bambino, di tutti i bambini del mondo, è meravigliosa. Sorrisi che diventano risate, piccoli passi, corse sfrenate, questi sì che sono meravigliosi.

La vita donata giorno per giorno tra due persone che si amano e che continuano ad amarsi nonostante le difficoltà, il dolore, le incomprensioni, finché morte non li separi, quella è meravigliosa.

Al contrario, o forse proprio per questo, la mia vita scandita dalla routine fa schifo.

La vita fatta di compromessi, di rinunce, di rospi ingoiati, di rimpianti, di occasioni mancate, di progetti scaduti, di sogni infranti, di persone deluse, fa schifo.

La vita che non abbiamo il coraggio di rifiutare e di rispedire al mittente, fa schifo; che continuiamo tutti i giorni a buttare giù, a palate, nonostante ci faccia schifo, fa schifo.

Perfino la vita che non abbiamo saputo vivere fa schifo, perché ci procura solo dolore, frustrazione e sgomento.

È per questo che tendiamo a dimenticare, che vogliamo dimenticare, per non soffrire più, per raccontarci che se è andata così, si vede che non doveva andare cosà.

La vita di chi è stato deludente fa schifo, così come quella di chi ha trovato la vita stessa deludente.

La vita di chi sa di essere stato deludente è triste e malinconica, una via di mezzo tra lo schifo e la rassegnazione.

La vita di uomini cattivi, crudeli, ignobili, ladri, assassini, stupratori, mafiosi, è peggio che schifosa. È una vita che fa vergognare perfino le cellule primordiali che hanno faticato tanto per organizzarsi in un essere vivente. Se l’avessero saputo, probabilmente non ne avrebbero fatto nulla.

Le vite dei santi, degli eroi, dei poeti, degli artisti, degli scienziati, dei generali, dei grandi uomini di Stato, sono vite lontane che non ci appartengono e di cui non sappiamo quasi nulla. Sono messe lì per farci sperare, sognare, vergognare, farci girare i coglioni.

E, come se non bastasse, per i più audaci, la soluzione sembra a portata di mano: caricare la vita dei propri figli con tutti i sogni che loro hanno bruciato lungo il cammino, per vedere se almeno così è possibile riscattarla, se è possibile mondarla dai rimpianti e dai rimorsi che pesano come macigni dentro le loro putride colecisti. Nelle loro intenzioni vorrebbero salvarli dalla vita schifosa e deludente che li attende, sperando così di lenire almeno in parte il loro dolore.

Vorremmo una vita diversa, tutti i giorni, almeno una volta al giorno, senza tuttavia avere le palle per decidere che quel giorno dovrà essere diverso da tutti gli altri giorni che hanno reso la nostra vita tanto schifosa.

Vorremmo poter dire, guardandoci indietro, che c’è stato un giorno nella nostra vita, almeno uno, in cui abbiamo deciso di fare di quel giorno qualcosa di speciale. In cui siamo riusciti, con le ultime briciole di coraggio, di fantasia, di follia che ci erano rimaste, a rimestare nel setaccio dello schifo e della routine e tirare fuori una pagliuzza dorata, un cristallo di speranza, un frammento di stupore.

Forse non basterà questo a renderci ricchi, a cambiare tutto con un click; forse il giorno dopo saremo ancora ricoperti di tonnellate di melma avariata, da montagne di rimpianti merdosi e di cocenti delusioni. La nostra piccola pagliuzza luccicante andrà subito persa in fondo a qualche scatolone dimenticato chissà dove.

Anche se non sarà sufficiente, anche se non sarà l’inizio di nulla, di tanto in tanto ci sorprenderà forse il ricordo, l’onestà, la sensibilità, la consapevolezza che avremo avuto nel saper riconoscere, tra milioni di altre vite, tra migliaia di altri giorni incolori tutti schifosamente uguali gli uni agli altri, un alito di vita diverso, una piccola meraviglia racchiusa come una coccinella nelle mani d’un bambino.

E sarà la fine.

 

Domani

E allora sarà come un sonno strappato all’alba dopo una notte insonne; fingeremo d’aver dormito e di non aver udito i pianti silenziosi che si confondevano con incubi di morte.

Guarderemo la marea ritirarsi, lentamente, e lasciare scoperti relitti e piccoli animali agonizzanti.

Ripareremo i nostri occhi con una mano mentre, guardando il sole, stenteremo a credere a quanta forza occorre per riportare la vita nelle nostre città deserte.

Ricorderemo storie d’amori mai nati, strappati dal fusto, d’amanti divisi, di bugie non dette.

Storie di mani che cercano invano un corpo da carezzare, labbra lontane, confidenze e odori perduti, lavati via da disinfettanti e antisettici con la sola forza della disperazione.

Storie di figli che affidano al vento parole d’addio a madri e padri soli nei loro piccoli letti d’ospedale.

Di uomini che uccidono i padri, che allontanano le madri dalle loro confidenze, che costringono le madri dei loro figli a soccombere alle loro false parole d’amore.

Avremo ancora nelle orecchie le sirene delle ambulanze che squarciavano il silenzio delle nostre case mentre abbassando lo sguardo eravamo costretti a decidere se era meglio morire di fame o annientati dalla malattia.

Avremo guardato i rami nudi e contorti degli alberi come cunicoli interstiziali di polmoni malati, e anche quando le prime gemme avevano cominciato a farsi strada tenacemente sulla loro pelle, verso la luce nuova e calda della primavera, abbiamo avuto paura che fossero bubboni puzzolenti venuti per uccidere.

Invece vorrei una cicatrice che fosse il segno d’una carezza cercata, un ansimare d’attesa, una passione ritrovata.

Sarà come buttarsi a perdifiato da una collina in fiore senza sapere se abbiamo la forza di fermarci.

Come la prima volta che abbiamo imparato ad andare in bicicletta, il primo bacio, il primo amore e finalmente liberi dai peccati e dai pregiudizi potremo fare di nuovo l’amore come fosse la prima volta.

Sarà come scegliere di non ferire nessuno, come ritrovare un amico che si credeva perduto, come ballare in riva al mare, come scagliare un sasso e colpire il gigante impazzito proprio al centro della fronte.

Avremo di nuovo nelle orecchie le risate dei bambini, le loro piccole mani nelle nostre, negli occhi i baci dati sulle panchine da giovani amanti inesperti, labbra tremanti e umide che sussurrano parole senza passato.

Avremo giovani donne la cui bellezza sarà più potente delle lacrime che avremo versato, uomini ricchi soltanto della meraviglia con cui sapranno ancora guardare il mondo.

E per quelli che vorranno dimenticare, che non saranno più capaci di trovare la forza nell’amore, nelle stelle e nel mare al tramonto, sarà sufficiente anche solo il coraggio di fuggire da ciò che in quei giorni hanno così tanto odiato.

 

Non è più, Non è ancora

 

Non è più

Non è ancora

Prima che l’alba sorga su un dolore conosciuto

Dove lei apparirà ancora una volta altrove

Svela il suo corpo nudo approdi familiari, lidi insidiosi,

ombre lente e profumate, sapori proibiti d’un tramonto baciato dal mare.

 

Non è più

Non è ancora

Ascensori dell’anima

Velocissimi e disabitati

Deformano il volto stremato ai due lati della notte

Confondono grida e lacrime e risa in un letto di denti e di spine.

 

Non è più

Non è ancora

I lembi d’una ferita ch’è impossibile rimarginare

Sorridono diffidenti al calar della scure

Inermi. Infantili. Innocenti.

 

E allora forse lei qui

In questo tempo di mezzo

Vedrà sporgenze affiorare dalla dura roccia bagnata

Vi ancorerà il suo buio colloso

Deboli tracce d’un futuro slegato

Fragile tregua che attraversa il deserto.

 

Paesaggi dell’anima

 


A 25 anni il mondo è pronto per essere addentato come un frutto maturo e succulento. Prendiamo Adamo: quando Eva gli mette sotto il naso una mela dolce e profumata, non può far altro che cedere alla bontà del frutto e alla bellezza della femmina, o viceversa. Biancaneve, ancor più giovane e bella, dopo esser fuggita dal castello per cercare la sua strada, addenta anche lei la sua mela, ma solo per poi cadere addormentata a causa del malefico veleno. Questo a significare che il mondo-mela è certamente dolce e affascinante, ricco di sorprese e di opportunità, ma anche insidioso e costellato di pericoli.

Ci vuole dunque coraggio e accortezza…come se fosse facile, a 25 anni. Oggi come oggi, siamo letteralmente sommersi da un immaginario che può attingere da film, documentari, libri, Wikipedia, Youtube, Youporn, tutto è già lì in bella mostra sugli scaffali pronto per essere acquistato e assaggiato, mangiato, digerito e rispedito nel mondo. Nulla sembra impedirci di afferrare tutto quel ben di Dio e portacelo via. Una volta capito che tutta quella roba non è che un miraggio, un riflesso di ciò che dovrebbe essere, di ciò che realmente val la pena di essere mangiato, è o dovrebbe essere relativamente facile lasciare la nostra personalissima impronta sulla sabbia a imperitura memoria per i posteri. Una spessa colata di fango la ricoprirà per bene e tra 100 milioni di anni sarà ancora lì a stupire i paleontologi di Xilon834/ter, in visita sulla Terra dalla costellazione dell’Aquario.

A 35, se tutto è andato come previsto, qualcosa dunque abbiamo visto e assaggiato. Pensiamo che sì, effettivamente il mondo è piccolo e che in linea di massima abbiamo capito quali sono i meccanismi che lo regolano; se non facciamo troppe cazzate, se non ci perdiamo in qualche isola remota inseguendo una chimera, non ci sono praticamente limiti a quello che possiamo fare. Se abbiamo voglia e buona volontà, possiamo, se non proprio piegarlo al nostro volere, almeno imporgli un nostro personalissimo modo di vedere le cose. Sogni, progetti, buone idee (che a noi sembrano addirittura “rivoluzionarie”) che ci portiamo dietro dalla nascita, aspettano solo di essere messi nel mirino e affondati; realizzarli sarà solo questione di tempo. Magari qualcuno dei nostri simili riuscirà perfino ad accorgersene e verrà pure a dirci bravo, ricoprendoci di soldi, fama, potere.

A 45 anni fai un po’ i conti con l’oste. Guardi il tavolo, chi hai davanti, gli altri commensali e t’accorgi che forse tutto questo potere non è ancora arrivato. E ti chiedi il perchè. Troppo presto, troppo tardi? Troppo grosso il bersaglio? Non si sa. Fatto sta che se non succede nulla di clamoroso, probabilmente il “successo” con la “s” maiuscola (o anche semplicemente minuscola) non arriverà più. (Quelli di voi per cui soldi, fama e potere sono effettivamente arrivati, sono invitati a saltare direttamente all’ultima parte di questo testo). Cominci a valutare l’ipotesi che forse sei stato ingenuo, presuntuoso, idealista, facilone, sfortunato, invidioso, inefficace, o forse semplicemente che non avevi niente di così importante da dire. Pensare di poter capire tutto, di visitare ogni angolo del globo, di poterlo cambiare magari in meglio, di inventare la macchina del tempo, di poter comprendere le esistenze di ogni singolo essere umano come se il codice di Matrix l’avessi scritto tu, era un tantino pretenzioso.

A 55 anni se nessuna singolarità s’è ancora presentata nella tua vita (tipo una vincita al Superenalotto, la scoperta della crema che fa ricrescere i capelli, o il ritrovamento d’una vena diamantifera nel giardino di casa) dovrai cominciare a fare i conti con l’idea che non avrai più la possibilità d’imporre niente a nessuno, non sarai il prossimo Steve Jobs, il futuro Nicola Tesla o un altro John Lennon. Farai fatica a imporre ai tuoi pochi capelli una piega accettabile, al tuo girovita una forma decente, ai tuoi figli un modo rispettoso di valutare il prossimo. Avrai qualche amico su Facebook che non vedi mai, e pochi conoscenti in carne e ossa che faresti volentieri a meno di vedere. La tua sfera d’influenza arriverà a stento al tuo pianerottolo, i tuoi figli ti chiameranno ogni tanto per chiederti dei soldi e tua moglie, se sarà ancora nei paraggi, comincerà a pensare se non è meglio per tutt’e due dormire in camere separate.

A 65 ti si squaglierà il cuore quando la tua nipotina ti sorriderà chiamandoti nonno e a quel punto qualsiasi ricordo o velleità di dominio sui tuoi simili andrà a farsi fottere.

A 75 anni, ammesso d’arrivarci, vedrai il tuo corpo farsi duro e secco come la roccia del deserto. I tuoi sensi (per fortuna) t’abbandoneranno, e lentamente, senza che tu te ne accorga, ti chiuderai in un mondo inodore, insapore e ovattato, lasciandoti libero dalle frustrazioni e dalle passioni che tanto t’hanno fatto dannare durante la tua insipida, normalissima vita.

E questo è quanto.

Troppo pessimista? Semplicistico? Non credo. O forse un po’, ma non importa. Ognuno di noi, onestamente, può fare due conti e ritrovarcisi, oppure no. In parte o in toto. A budget o a consuntivo. Non importa. E’ solo un certo modo di vedere le cose. Ognuno è libero di pensarla come vuole e soprattutto di credere a quello che gli pare. In ogni caso, credo, non ci sarebbe nulla di male nel ritrovarsi a soppesare la propria vita come quella d’un uomo qualunque a cavallo tra XX e XXI secolo. Forse la forza sta proprio nel riconoscersi mantenendo una propria identità all’interno del gruppo; ma chissà, potrei sbagliare…

Mi si dirà: impossibile categorizzare, l’uomo qualunque non esiste. Benissimo, allora diciamo che, in ogni caso, se un uomo del genere dovesse esistere, a me sarebbe quasi simpatico. Per tutti gli altri c’è ben altro….Vediamo.

Ogni vita, nel bene e nel male, nella salute e nella malattia, è una singolarità. Giusto!

Ogni essere umano è speciale, giusto! ma è anche piccolo e cattivo; capace di donare e donarsi, di piccoli sacrifici e di grandi slanci: da una piccola offerta al poveraccio in metropolitana fino al sacrificio della propria vita per un suo simile, famigliare o sconosciuto, nel breve spazio d’un minuto o nell’arco d’una vita intera.

Posto che il paradiso in Terra non esista, quest’(altro) uomo fuori dagli schemi e a-normale si trova dunque a dover fare i conti tutti i giorni con le sue miserie e con le sue piccole soddisfazioni, a doversi riconoscere un minuto prima in Dio e quello dopo in Satana, a ritrovare dentro di sè tracce di polvere (di stelle) e (per chi ci crede) immortali, ma anche di polvere e basta, della più sporca e unticcia, tipo quella che scende dalla cappa della cucina quando bolle l’acqua per la pasta.

Tempo fa guardavo un documentario sulle vittime del genocidio in Cambogia ad opera di Pol Pot. Qualcuno asseriva che dopo anni da quei fatti orribili è più facile ottenere aiuti per lo Tsunami che per le vittime del genocidio. Questo perché lo Tsunami è una catastrofe naturale, quindi ineluttabile, quindi scevra da qualsiasi questione morale. Il genocidio invece è come se ci riguardasse, come se ci facesse sentire in colpa per quello che è successo, e di qui la difficoltà a prendere posizione. Di fronte al male si rimane interdetti, come se si faticasse a riconoscerlo e a chiamarlo per nome.

Hannah Arendt, dopo il processo Eichmann, ha parlato di “banalità del male”, per sottolineare appunto che quell’uomo così insignificante e quasi banale era stato capace di azioni orribili senza che nessuno potesse farci niente. Titolo senz’altro azzeccato, ma probabilmente un po’ fuorviante. Forse c’è davvero della banalità in un uomo che si è reso strumento di un tale malefico progetto spacciandosi per un semplice burocrate che faceva il proprio dovere. In realtà un male così fatto non è mai banale, piuttosto siamo noi (altri) esseri umani che tendiamo a spersonalizzarlo, come se fosse un concetto assoluto, inaccettabile, slegato dagli individui che lo compiono, e proprio per questo più difficile da stanare; richiede quindi fermezza e coraggio per essere riconosciuto e additato per quello che è. Ovviamente non è facile individuare e punire le responsabilità dei singoli; giudicare ed essere giudicati è forse l’atto più difficile che un uomo è chiamato a compiere nei confronti dei propri simili; nondimeno non si può sfuggire al proprio dovere. Se non per la legge, almeno per le vittime che sono state annientate e degradate da altri uomini a livello di animali, obbligate a dover combattere ogni giorno coi propri simili per un chicco di riso.

Basta leggere “Se questo è un uomo” di Primo Levi per rendersi conto di quanto disumanizzante fosse la “vita” in un campo e allo stesso tempo quanto poco spazio ci fosse in quell’orrore, per un giudizio verso i carnefici. C’era solo l’istinto, quotidiano e inconsapevole, a sopravvivere.

Alle vittime, ai sopravvissuti, rimane per sempre appiccicato un sottile senso di colpa, come una bava mefitica, come se in fondo avessero sentito di meritare quello che stava loro accadendo, rintanandosi nell’inevitabilità della loro condizione, condannati a preferire una morte rapida e immediata alla sofferenza di una vita che non aveva più alcun senso.

Per fortuna, l’umanità, insieme ai vari Hitler, Pol Pot, Stalin, è riuscita a produrre anche individui come Gandhi, Mandela, Gesù. Ma non so se questo sia sufficiente a salvarci tutti.

Così come tendiamo a spersonalizzare il male, analogamente tendiamo a spettacolarizzare il bene, slegandolo dall’uomo. Basta vedere com’è facile chiamare eroe un vigile che fa il proprio dovere, o un bagnino, o l’autista di un autobus.

“Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”, diceva Brecht.

E nemmeno quando siamo chiamati a riconoscere i piccoli gesti, nel bene e nel male, ce la caviamo tanto meglio. Le piccole gentilezze, le carezze, uno parola rassicurante, uno sguardo amico, svaniscono come pioggia nel deserto insieme ai piccoli imbrogli, alle bassezze, al superare la fila di macchine per infilarsi all’ultimo. Si fa finta di niente. Un sopracciglio alzato, mezzo sorriso. Poco di più.

Sembriamo essere incapaci di avvicinarci gli uni agli altri, sempre in fuga dall’uomo, altrove. Come se non riuscissimo a stargli accanto, a guardarlo negli occhi. Come se ne temessimo la presenza.

Perché è così difficile stare vicino a un uomo e guardarlo negli occhi?

Forse perché abbiamo paura di quello che potremmo vederci riflesso. Ma è solo la prima risposta che m’è venuta in mente. Forse altre se n’è date Marina Abramovic durante la sua performance al Moma del 2010 “The artist is Present”. O forse no.

La realtà è che siamo deboli e imperfetti, quasi normali, a sprazzi dotati di slancio.

Siamo necessario e contingente, essere e non-essere. Mischiati insieme. In dosi variabili nel tempo e da individuo a individuo.

Volendo trovare una sorta di compromesso quantistico, potremmo dire che quanto più precisamente riusciamo a definirne uno, tanto più indefinito ci risulta l’altro. E viceversa. Senza possibilità di salvezza.

All’inizio relativizzare è più difficile, a vent’anni tutto è possibile e quasi niente è probabile, il futuro è un insieme infinito di futuri possibili; il contingente è sacrificato a scapito d’una forte visione del mondo.

Alla fine sappiamo che tutto passa, che non siamo altro che polvere di stelle e che quando i nostri occhi si chiuderanno, anche la luce sull’universo si spegnerà per sempre.

Non è nichilismo, è coraggioso realismo con uno schizzo di speranza sul presente. Il futuro è lontano; troppo per poterne sopportare il peso.

 

 

Canto per lo straniero

 

Addio, mio gentile straniero.

Va’ ovunque il coraggio ti conduca e piangi lacrime silenziose

Lordati del fango di questa nostra terra stanca e malata.

Gioca coi nostri figli e ascolta le parole dei vecchi seduti in strada,

vicino alla porta della loro povera casa.

Respira il freddo del vento spietato che scende dagli Urali

Assapora il gusto metallico di parole non tue.

Dì al tuo cuore di farsi grande abbastanza per accogliere gli sguardi che incontrerai, senza vergogna; aggirandoti come un animale affamato tra i ruderi del loro sogni, raccogliendone i gioielli sulla coda del pavone.

Non infierire sui tuoi occhi che vorranno chiudersi di fronte a quello che vedranno

Concedi alle tue orecchie di ascoltare parole che non vogliono essere dette, gocce di sangue rubate dallo scarico di un lavandino.

E poi torna

Ritorna alla tua casa e dimentica tutto.

Dimentica me, la mia terra e quello che hai visto.

Lascia che il destino di questa terra maledetta si compia fino in fondo

Che l’odio e la rabbia consumino le coscienze degli uomini finché non ci siano più uomini per odiare, né coscienze per soffrire.

Solo fa’ che quello che hai visto non accada ai tuoi figli, ai loro amici e ai nemici dei loro amici.

Spegni la luce calda suoi loro sonni di bambini felici

Perché non abbiano mai un giorno a desiderare che il sonno si tramuti in sogno e poi morte.

Addio mio gentile straniero

Addio

Non dirò nulla

 

Lascia stare.

Stavo per dire lasciami stare qui. Ho rinunciato. Per me e per te.

Non volevo più scorgere nei tuoi occhi la pena. Sulle mie labbra la preghiera.

Solo gli dei si fanno pregare.

Schegge d’amori sgretolati dal tempo, dalla tempesta, dall’incuria.

Un vento gelido d’autunno le raccoglie come foglie secche agli angoli del mio cuore.

Al centro, il lago salato di tutte le lacrime che ho versato.

Qui, sarebbe stato dove sei tu.

Ora è nient’altro che il momento in cui ho cessato di implorarti.

Riguadagnato e sofferto, strappato senza un gemito dalle mie carni, a te.

Le nuvole sono tornate ad occupare la stessa identica posizione di quel giorno in cui per la prima volta alzai gli occhi al cielo. Le osservo. E non mi muovo più. Non mi muovo e mi lascio portare. Come da prima che arrivassi tu.

Che importa chi parla? Qualcuno ha detto lascia stare. A chi importa chi parla? È solo una voce che non è più qui e non vuoi ascoltare. Qualcun altro, forse, domani, proverà a raccontare una storia. Non sarò io. Io non dirò nulla.

Dolce rassegnato prevedibile domani che tuttavia non appaghi i miei sogni di ragazzo.

Un suono in lontananza aumenta d’intensità. A intervalli regolari.

Si direbbe il respiro affannoso di un animale ferito, ma la direzione non è chiara. Non è chiaro neanche se ci sia una direzione: da o verso questo punto che è una buca melmosa dove non sei tu.

In attesa che il cielo schiarisca di nuovo. Che quel suono mi travolga, o mi eviti all’improvviso, con uno scarto che non ho chiesto.

I binari contorti paiono radici rinsecchite portate dal mare sulla spiaggia.

Il soffio del vento li ricopre lentamente con manciate di sabbia caustica.

Qualcuno allora forse proverà a costruire una storia sulla sabbia. Non sarò io. Io non dirò più nulla.

Tutto invece è. Stavo per dire Tutto. La tentazione è forte; ma dicendo così è niente.

Tutto. E’. Vuoto. Vago inutile e falso. Tutto è caos, guerra di tutti contro tutti.

Almeno un prima e un dopo sono nulla, sono in nessun posto; un mai accaduto.

Tra l’uno e l’altro, qualunque cosa sia, non sarò io. Io non dirò nulla. Non dirò nemmeno Tutto.

Ascolterò.

Ascolterò soltanto raccontare una storia e guarderò gli altri partire. E se quel suono mi risparmierà, sarò con loro. Sarò qui e là.

Dove andrei se potessi andare?

Chi sarei se potessi essere?

Cosa direi se avessi una voce?

Chi parla così dicendosi me?

Se non qui, se non centro, se non parola, allora forse potrei essere un andare e venire. Movimento. Azione. Per far ripartire il tempo. Ogni cosa tra un prima e un dopo.

Ci vorrebbe di nuovo un corpo. Non dirò più di no, questa volta.

Mi dirò un corpo, questo lo dirò, un corpo che si muove, avanti e indietro, che entra e esce, secondo le necessità e il piacere.

Allora il corpo sarà il centro.

Racconta una storia e chiedimi se sono felice.

Chiedimelo ogni giorno. Ogni minuto di ogni nuovo giorno.

E sorprendimi se puoi, sarà più difficile. Più difficile per loro. Più difficile per loro e per me.

Tienimi sveglio con incubi terribili perché potrebbero entrare e non me ne accorgerei. Potrebbero scivolarmi dentro come tra le cosce di una puttana e lo troverei solo caldo e rassicurante.

Quanto per un’ora d’amore? O per un carato di felicità.

Neanche si dovesse setacciarla, scavarla, separarla a mani nude da migliaia di tonnellate di roccia.

Eppure qualcuno, da qualche parte, a un certo punto, deve avermi promesso qualcosa. In cambio.

Non avrei desistito sennò. Non avrei resistito.

Chissà quale ricca corona per farmi chinare la testa.

No? Forse è solo che non ricordo. Dovrei sforzarmi. Ma come si fa a ricordarsi tutto? In ogni caso Tutto è. Stavo per dire tutto è caos.

Forse qualche siero sconosciuto. Quanta dose di anestetico avranno dovuto usare?

Quale terribile marchingegno hanno dovuto inventare i miei torturatori in guanti di velluto? Nessuno?

Nell’altra stanza voci di uomini. Uno di loro si erge sopra tutti, li incita prima della partenza, gli altri ridono e approvano, eccitati, sguaiati. Siamo i migliori e vinceremo. Chi non è con noi è contro di noi. Il piacere orgiastico della guerra li esalta e li acceca.

Unici custodi delle ultime gocce di umana follia ancora in circolazione.

Detentori autorizzati dei gesti più turpi e degli atti più eroici.

Le voci si allontanano. La direzione non è importante, non in questi casi. Poco a poco le grida si perdono nel vento.

Portano la guerra lontana.

Ritorna la calma e il silenzio.

Ritorna l’oblio. Ogni cosa tra un prima e un dopo.

Se c’è un corpo, questo è il momento.

Non era forse meglio partire con loro per la guerra?

Uomini senza spessore

Credo si possa individuare una certa categoria di uomini, (anche di donne probabilmente, ma da uomo sono disposto a concedere loro di più), di cui è praticamente impossibile rilevare uno spessore.
Uomini monodimensionali, a un solo strato, un solo sapore, un solo sguardo, che per quanto provi a girarci intorno sono in grado di porgerti solo la faccia che vedi, niente di più, niente di meno.
Che di per sé potrebbe anche non essere una cosa negativa; forse uomini del genere sono incapaci di inganni e sotterfugi, sarcasmo o sottintesi, rimorsi o ritorsioni, quindi, in fin dei conti, come non sentirsi sicuri di fianco a soggetti del genere.
Però quando incappo in persone così mi vengono in mente i vini isolani corposi, i cieli di Turner, un Single Malt invecchiato 20 anni in botti di Bourbon o di Sherry. Mi viene in mente la voce della Streisand, gli intermezzi di Wagner, gli spaghetti alla carbonara, l’odore d’un giardino a primavera dopo che ha piovuto, le sere d’estate al mare in Sardegna.
Ripenso alle costellazioni del cielo che se guardi bene si vede che le stelle sono una vicina e una lontana, ai Demoni di Dostoevskij, a una poesia di Salinas, all’odore della donna che ami o della foresta amazzonica.
Ricordo le carezze date e ricevute, ovunque e comunque; i piedi nudi sulla sabbia fresca, sull’erba appena tagliata e sui ciottoli levigati, i germogli verdi d’un abete rosso, una scarpa troppo stretta, un ago troppo lungo.
E allora mi rendo conto che forse, ma dico proprio forse, barattare la libertà con la sicurezza in certi momenti della vita aiuta a sentirsi un po’ più vivi. E se sentirsi vivi non coincide necessariamente col sentirsi felici o in pace col mondo o pienamente soddisfatti, allora sempre in quei particolari momenti e, solo per noi, possiamo anche prenderci la “libertà” di dire: “ecchisenefrega!”

Homo respons-habilis, ovvero il tramonto della/e professionalità

Sta accadendo qualcosa. Qualcosa che sta prendendo piede abbastanza rapidamente. Non so esattamente come definirlo, non vorrei sembrare polemico o qualunquista. Odio essere qualunquista. Generalizzazione e qualunquismo sono la morte dell’individuo empatico e soprattutto di una storia che valga la pena di essere raccontata. Tenterei quindi un’interpretazione un po’ più scientifica, induttiva, che troppo male non fa’, non si erge a verità assoluta e soprattutto può essere smentita da chiunque in qualsiasi momento. Diciamo quindi per il momento che, secondo me, qualcosa a un certo punto è successo, e sta ancora succedendo.

L’ho chiamato “Tramonto della/e professionalità”, ma avrei anche potuto chiamarlo menefreghismo, apatia, pressapochismo, scoglionamento sociale.

Mi fa orrore pensare di dover aggiungere subito: “una volta non era così…” sa veramente di vecchio e noioso (oddio, forse lo sono anch’io vecchio e noioso, ma faccio di tutto per dissimularlo).

Quindi, visto che forse lo sono davvero, lasciatemi fare una riflessione da vecchio e noioso. Giusto per vedere se qualcun altro (magari invece giovane e rampante) la pensa più o meno allo stesso modo.

Vi faccio alcuni esempi, tanto per inquadrare il problema. Che di per sé potrebbe anche non essere un problema…L’asteroide (o gli asteroidi) che ha colpito la Terra 65 milioni di anni fa, è stato un “problema” per i dinosauri, ma non per i piccoli mammiferi o per i pesci. Quindi forse è semplicemente così che devono andare le cose.

Primo esempio: vai dal tuo medico, quello generico, quello che appunto “una volta” ti visitava (un minimo), magari veniva pure a casa, ti diceva cosa avevi e ti prescriveva una cura. Stessa scena oggi:…Tu gli/le telefoni (solo in determinati orari: tipo la mattina dalle 8.00 alle 8.15 se trovi libero), spieghi, prenoti la visita (se lui/lei ritiene sia abbastanza grave), ti presenti (solo in poche e selezionate fasce orarie), gli/le spieghi, anzi gli/le rispieghi (dalla sedia, perché figurati se ti visita), e alla fine, scocciato, la fatidica domanda: quindi, secondo lei, che cos’è? (ma del medico però!).

Oppure vai in banca: i pochi esemplari esposti sono male illuminati e fruibili da lontano, in silenzio. Igrometri, telecamere, un guardiano seduto, magari da remoto, niente foto. Regna la penombra e il fruscio, sembra di entrare in un museo italiano. La maggior parte del lavoro te lo sei già fatto tu da casa, on line: saldi, bonifici, investimenti,…Tutte cose che una volta (appunto) facevano loro e che invece adesso fai tu e paghi pure per avere il privilegio di fartele. Anche in questo caso, se vuoi parlare con una persona in carne e ossa (e non con un tutor virtuale), devi prendere un appuntamento. Guai presentarsi così, all’improvviso, potrebbero pensare a una rapina. E saresti l’unico perché pure i ladri hanno rinunciato…

Chiami l’elettricista perché il forno elettrico va in corto. Al telefono ti chiede: modello, numero di matricola, potenza erogata, anno d’installazione, dimensioni, scheda tecnica (se disponibile), descrizione dettagliata dell’incidente che ha provocato il guasto…praticamente un’anamnesi completa dell’apparecchio; dopo la quale può decidere a sua discrezione se gli conviene uscire (sempre su appuntamento), oppure se te lo devi riparare da solo; che a quel punto lo puoi anche fare, perché ormai ne sai più tu di lui.

Altro esempio: vai in officina (previo appuntamento con settimane d’anticipo in cui avevi spiegato al telefono cosa aveva l’auto, sempre che tu non debba anche compilare qualche modulo on-line), gliela porti e il meccanico, guardandoti come se gli stessi rompendo le palle, ti chiede serafico: allora, qual è il problema? Così tu glielo rispieghi, lui dice che ha capito tutto e quando vai a ritirare la macchina, il problema c’è ancora (ma te ne accorgi solo quando esci dall’officina) perché – ti spiega poi lui – il pezzo che ci vuole l’ha ordinato e dovrà arrivare.

Potrei andare avanti ancora, ma preferisco arrivare rapidamente a un punto che mi sembra più interessante.

Anzi no, un ultimo caso prima di concludere. Mettiamoci dentro anche il modello Ikea, quello con cui il signor Kamprad è diventato miliardario facendo costruire i mobili ai suoi clienti. Fighissimo, eh, forse era necessario; dopo il motto: “una casa per tutti”, è arrivato lui con “una casa per tutti decentemente arredata”. Però poi, alla fine, quando uno s’è riempito mezza casa di robe Ikea e si guarda intorno soddisfatto, capisce anche che insieme alla soddisfazione per essersi fatto la maggior parte del lavoro da solo, arriva la consapevolezza che “una volta” chi ti faceva il mobile veniva anche a montartelo per assicurarsi che il frutto del suo lavoro rappresentasse al meglio chi era e cosa aveva fatto.

Cioè, intendiamoci, va bene anche così. Dopo una giornata intera passata davanti al PC, muovendo a mala pena la mano del mouse, un po’ d’esercizio fisico non può che far bene. Se non si va in palestra, anche una libreria “Billy” può servire allo scopo. E infatti non ce l’ho con il signor Kamprad. Ce l’ho con tutti quelli che quando vai a chiedere un servizio (o prestazione, che dir si voglia), per i quali sarebbero anche pagati, ti trattano come se puzzassi di carne avariata. Non tutti, eh, intendiamoci. Non si può mai dire “tutti”. L’eccezione che conferma la regola c’è quasi sempre. Però credo che si possa tranquillamente parlare di “andazzo”. Ovvero di un progressivo e neanche tanto lento depauperamento della capacità di attenzione al proprio lavoro. Dell’assottigliamento delle competenze e della mancanza di cura e precisione nelle cose che si fanno (soprattutto per denaro, che se ci pensiamo è assurdo). Sia in chi una prestazione la dovrebbe dare, sia anche in chi, probabilmente più per rassegnazione che per altro, quella prestazione la riceve.

Adesso, non dico che il cliente ha sempre ragione, perché non è vero. Cioè è vero, ma con riserva. Il cliente gentile ha sempre ragione, il cafone fai di tutto per levartelo dalle palle, sempre che tu non abbia assolutamente bisogno anche di lui, nel qual caso te lo tieni stretto e ti turi il naso. Ora, siccome non credo di essere un cafone, o che la gente non abbia bisogno di tutti i clienti che può avere, sorgerebbe spontanea una domanda. Per forza sorge. E magari anche più d’una, tipo: ma quali le cause, perché, per come, da quando, la società, gli individui, la famiglia, il consumismo sfrenato e rottamatore…E fermiamoci qua, che già ci sarebbe di che riempire pagine di inserti culturali o ore di salotti televisivi. Quindi tagliamo la testa al toro e andiamo oltre; saltiamo un passaggio. Supponiamo che il meteorite sia già caduto e che sia giusto così. Per tremila motivi. Alcuni dei quali magari neanche li conosciamo. Supponiamo che stiamo veramente assistendo al tramonto delle professionalità (o perlomeno alla morte di molti lavori e alla nascita di nuovi), e che presto o tardi saremo destinati a farci tutto da soli, on line: curarci da soli, aggiustarci le cose da soli, magari stampandoci i pezzi in 3D, progettarci le cose da soli, prenotare tutto da soli, gestirci i soldi da soli, noleggiare tutto e non possedere niente,…

A quel punto, credo, gli scenari possibili saranno solo due. O sarà una figata pazzesca, perché assisteremo alla nascita di un nuovo “homo respons-habilis” (che non dovrà più lavorare perché sarà troppo impegnato a fare lui tutti i lavori del mondo), oppure sarà il tracollo totale.

Le poche o tante professionalità rimaste saranno stockate dentro potentissimi server che ragionevolmente saranno in mano ai soliti ig-noti. I pochi volenterosi o eletti, si scaricheranno direttamente nella corteccia cerebrale le informazioni di cui avranno bisogno per cambiare un termostato dello scaldabagno o una valvola cardiaca, magari in licenza temporanea, che costa meno. Se per qualche disgraziato motivo (ma neanche troppo) dovessero andare in crash tutti i server del mondo, o avremo memoria delle competenze acquisite nel corso della nostra breve e insignificante vita, scambiandocele magari sui social o col passa parola di condominio; oppure ritorneremo all’età della pietra, cercando di ricordare come si faceva a scheggiare un pezzo di selce con le mani.

 

Come l’occhio d’un pesce rosso

 

Una porta che sbatte sul pianerottolo.

È così che ricomincia.

Il motore dell’ascensore accende il fruscio del suo corpo caldo sotto il piumino leggero.

Fingo di dormire, su un fianco, dandole le spalle. Ne percepisco distintamente le diverse posture al buio: distesa, seduta, in fuga.

L’altra, è come un rubinetto aperto sopra una vasca piena di scuse. Invece è il suo liquido caldo nel sifone del water.

Un fremito tra le gambe. Ancora, nonostante tutto, per lei.

La cascata sul piatto doccia. Il suo profilo impacciato la prima volta che la vidi nuda, pallida ombra tra le lenzuola cobalto del letto di casa sua. La casa che condivide con lui.

Il tintinnio d’un cucchiaino distante girato controvoglia.

Una bottiglia di plastica troppo sottile che cede rassegnata sotto le sue dita forti e sottili.

La sento fare piano quando apre e chiude la porta. Non ha le chiavi; non le ha mai volute.

Ho sognato una sposa su un Maggiolone decappottabile che mi sorrideva di rimando un po’ imbarazzata. I fiori del bouquet uno squarcio nel ventre.

A seguire, gli occhi tristi d’una bimba appoggiati al finestrino posteriore d’una grossa Porsche color canna di fucile.

Mi rigiro nel letto. Supino. Le mani sotto lo sterno, a guardia dello stomaco; che grida.

Mi sforzo di non pensare.

Ancora il motore dell’ascensore. Il condominio si svuota. Li vedo uscire, uno dopo l’altro, rincorrendo giovani sogni di carta velina che avvolgono blocchi di calcaree delusioni.

Io non mi muovo, aspetto che non succeda più nulla.

So che da lì in poi dovrò ricominciare, affidandomi a una corda troppo sottile in mezzo alla tormenta.

Questo è quello che ci siamo detti dopo aver fatto l’amore, un’altra volta.

Mi attenderà altrove, come l’occhio d’un pesce rosso che scompare nello scarico del water.

Una sera a teatro

Tempo fa mi è capitato di andare a teatro.

Non dirò né il teatro né lo spettacolo.

Non perché non voglia ma perché questa non è una critica a quello spettacolo in particolare o all’autore, solo una considerazione generale, che vuole andare un po’ oltre.

Fatto sta che dopo un po’, cioè dopo circa dieci quindici minuti, avevo già capito che non mi piaceva (per la verità l’avevo capito anche prima, però ho voluto concedergli il classico quarto d’ora accademico che non si nega a nessuno. O quasi).

Vari punti deboli, qualche ingenuità, gli attori così così, insomma, ci siamo capiti; il punto però è un altro.

Il punto è che mi capita sempre più spesso di vedere spettacoli che non mi piacciono, a Milano; altrove magari sarà diverso, non so.

Quindi, siccome è un po’ di tempo ormai che ci vado, a teatro, e un po’ vuol dire anni, si aprono due scenari possibili.

O il mio gusto è cambiato e sono diventato molto più esigente, a parità di qualità media; oppure il mio metro di giudizio è rimasto più o meno inalterato e la qualità degli spettacoli è scesa parecchio. Terza possibilità (anche se remota): ultimamente incappo solo in un certo tipo di spettacoli; ma personalmente credo molto più al caso che alla sfiga.

Comunque sia, la risposta ovviamente non c’è.

Potrebbe essere una combinazione dei due fattori: un po’ è cambiato il mio gusto, un po’ è scesa la qualità. Oppure la qualità media è rimasta pressoché inalterata e io sono diventato molto più intollerante a certi “spettacoli” (in tutti i sensi), che onestamente definirli imbarazzanti è riduttivo.

Non voglio infilarmi qui nel vespaio della qualità perché poi bisognerebbe tirare in ballo tutta una serie di considerazioni sulla cultura contemporanea italiana in generale, che poi non se ne esce più. Risorse, idee, artisti, società, economia, servizi occulti, deviati, interessi, insomma, un bel casino. Onestamente non mi va, e forse non ne sono neanche capace.

Né voglio tirare in ballo l’evoluzione del mio metro di giudizio, perché anche supponendo che fossi in grado di affrontare un’analisi onesta e accurata di quest’’”oggetto” oscuro, non credo che interessi a qualcuno.

Invece, tornando alla mia serata a teatro, mentre ero lì che pensavo, anzi sentivo proprio che lo spettacolo mi procurava anche un certo fastidio, mi sono affiorate alla mente (che quando non è presa da quello che sta vedendo, inizia a vagare liberamente per i cavoli suoi), tutta una serie di considerazioni che vado a elencare:

Vabbè, e mo’ che faccio? Resto fino alla fine? Uhmmm, mi sa che me ne vado prima. Sì, ma quando? Adesso pare brutto. Dovrei sfilare davanti a tutti. Poi gli attori. Per loro mi spiace.

Oltretutto mi sa che prima di iniziare hanno sigillato la sala; quindi mi toccherebbe armeggiare con la maniglia della porta, fare casino e sperare che le maschere non mi guardino troppo male. Troppe incognite. Lasciamo stare. Per ora.

Carina la maschera che m’ha strappato il biglietto entrando. Vent’anni al massimo. Per forza, quanti ne deve avere per fare questo lavoro sottopagato?

A proposito di biglietto, dov’è che l’ho messo? Tasca. Quale tasca? Questa. Qualche volta ce lo scrivono pure sopra se c’è l’intervallo. Però, anche se c’è scritto, con ‘sto buio, hai voglia…

Certo che, una volta c’avrei guardato prima. Anzi no, una volta non c’avrei proprio guardato perché ero più fatalista: se c’è, c’è, se non c’è, amen.

Invece quello che c’è sicuramente qui dentro è un caldo della madonna. Senti che roba. Strano perché di solito risparmiano pure sul riscaldamento. Sarà l’effetto stalla. O la piadina che ho mangiato. O il maglione troppo pesante. Come lo spettacolo. Cià che lo levo. Il maglione. Non adesso però. Troppo silenzio. Magari su un cambio scena. O un applauso. Ammesso che arrivino.

Nel frattempo potrei mettermi a contare i colpi di tosse, che quelli sì che fioccano. Mi sa che stasera ci scappa il record. Almeno sulla mezza distanza: fino all’intervallo. Sempre che ci sia. Potrei scriverlo nei commenti allo spettacolo. Giudizio: 89 colpi di tosse e un disperso.

Chissà, magari è proprio il caldo. Speriamo non venga da tossire anche a me che poi allora tutto sto giudizio lo sai dove va a finire.

Sarà meglio che mi levi ‘sto maglione prima possibile.

Mamma mia, però che palle ‘sta roba! No, non il maglione….Fammi pensare: ma chi è che l’ha scritta? Manco questo, ricordo. Mah…sarà che non era poi così famoso, sennò me lo sarei ricordato. Forse.

Cioè, dài, adesso, onestamente, ma li senti? Poracci, gli attori ci provano anche (qualcuno), ma non c’è una sola battuta che funziona. Tutta roba piatta. Senza il non detto. Banali. Scontate. Riportate.

Che poi, a pensarci bene, adesso non vorrei dire un’eresia, ma come si fa a credere al teatro di questi tempi? Cioè, come si fa a credere a un tipo di teatro fatto così, di questi tempi. Ammesso poi che ci sia un tipo di teatro per ogni tempo. Anzi, meglio, uno spettacolo per ogni stagione (dell’anno). Stagione-teatrale, stagione-dell’anno. Carino…

Oddio, secondo me, se uno spettacolo è bello, è bello sempre. Comunque…

Oh mamma! Uhff, senti che roba! Mi sa che qualcuno ne ha tirata una pesante.

Porca miseria. Che bomba. Attenzione! Pericolo! Evacuare la zona contaminata. Trattenere il fiato. Respirare poco. Eclissarsi. Scomparire. Tutti al teletrasporto. Ehh…Magari fossimo in una puntata di Star Trek.

La prossima volta devo ricordarmi di portare il Vicks Vaporub. Come all’obitorio. Non che io ci sia mai stato. Roba da telefilm.

Secondo me è stata quella vecchia lì a destra con la camicetta a sbuffo e la collana di perle. E gli orecchini di perle. E l’anello di perle. Se magari se le fosse mangiate le perle, invece che i fagioli di “Trinità”.

Anzi, no, guarda. Eccolo lì il colpevole: il marito. Duecent’anni minimo. Duemila spettacoli visti all’attivo, Ecco perché tossiva così prima. Per coprire il rumore. Che poi queste qui sono quelle silenziose; le peggiori. O magari invece gli è venuta tossendo. Scompensi aerobici di fine stagione (della vita). Carino, anche questo, quasi quasi me lo segno.

‘Spetta che mi levo il maglione così faccio un po’ d’aria.

Ahhh…respiro. No. Illusione. E’ durato solo un secondo. Già finito. Non ce la farò mai. Non uscirò mai vivo da qui.

Che poi, una volta fuori, che faccio? È ancora presto.

Potrei andare a casa a giocare alla playstation.

Ma io non ho mia giocato alla playstation. Non ce l’ho neanche la playstation. Infatti; m’è venuto in mente solo perché l’attrice, in scena, quella che fa la parte della madre, prima ha detto che suo figlio gioca sempre alla playstation.

Potrei provare col tablet di mio figlio. Anche se, dubito che…

O magari un film. È che non ho guardato che c’è in TV stasera. Per forza, dovevo venire a teatro.

Ci contavo su ‘sta cosa. Se solo avessi sospettato, un occhio magari glielo davo. Così mi trova impreparato.

Cià, fammi ascoltare un po’ và. Dov’è che vuole andare questa qua a cercare suo figlio?

Boh, forse sarò io che non riesco a entrare, non so. D’altronde, questi qui ridono tutti come pazzi. Pure i due vecchi scorreggioni. A me non viene proprio da ridere. Che cazzo ci sarà da ridere? Non mi sembrano dialoghi così esilaranti. A dir la verità non mi sembrano neanche ironici; o drammatici. Cioè, non si capisce proprio cosa dovrebbero essere; ecco cos’è. Boh. Colpa mia.

Chissà la maschera che starà facendo là fuori. Starà parlando con le altre maschere, immagino. Magari sono usciti a fumarsi una sigaretta e intanto decidono che fare più tardi. D’altronde, vent’anni…ehh…

Chissà se a vent’anni ci credono ancora al teatro. Magari a quell’età va bene tutto. Chissà. O fa tutto schifo. O si riesce già a capire, ma non si ha il coraggio di dirlo. Boh, io a vent’anni non capivo un accidente. E forse neanche adesso…

Potrei andare a casa e mettere su un DVD.

Ehhh…Ma, a proposito: meglio una cosa brutta che non ho mai visto da sorbirsi fino alla fine, o una mezz’ora d’un bel film che hai già visto decine di volte?

Mmmm…interessante. Potrei scrivere anche questo sul foglio dei commenti; dopo i colpi di tosse. E prima del disperso.

Mi sento un disperso. Un naufrago ribelle. Un ossimoro esistenziale suburbano.

Sto vaneggiando. Sarà il caldo. E la puzza di merda.