Categoria: Diario

La vita che vogliamo

La vita è meravigliosa.

La vita di una cellula primordiale che si organizza in altre cellule primordiali nate praticamente dal nulla è meravigliosa.

La vita della Natura che si risveglia a Primavera in mille profumi e colori è meravigliosa.

La vita nel gesto generoso e disinteressato di un uomo buono è meravigliosa.

La vita nel sorriso di un bambino, di tutti i bambini del mondo, è meravigliosa. Sorrisi che diventano risate, piccoli passi, corse sfrenate, questi sì che sono meravigliosi.

La vita donata giorno per giorno tra due persone che si amano e che continuano ad amarsi nonostante le difficoltà, il dolore, le incomprensioni, finché morte non li separi, quella è meravigliosa.

Al contrario, o forse proprio per questo, la mia vita scandita dalla routine fa schifo.

La vita fatta di compromessi, di rinunce, di rospi ingoiati, di rimpianti, di occasioni mancate, di progetti scaduti, di sogni infranti, di persone deluse, fa schifo.

La vita che non abbiamo il coraggio di rifiutare e di rispedire al mittente, fa schifo; che continuiamo tutti i giorni a buttare giù, a palate, nonostante ci faccia schifo, fa schifo.

Perfino la vita che non abbiamo saputo vivere fa schifo, perché ci procura solo dolore, frustrazione e sgomento.

È per questo che tendiamo a dimenticare, che vogliamo dimenticare, per non soffrire più, per raccontarci che se è andata così, si vede che non doveva andare cosà.

La vita di chi è stato deludente fa schifo, così come quella di chi ha trovato la vita stessa deludente.

La vita di chi sa di essere stato deludente è triste e malinconica, una via di mezzo tra lo schifo e la rassegnazione.

La vita di uomini cattivi, crudeli, ignobili, ladri, assassini, stupratori, mafiosi, è peggio che schifosa. È una vita che fa vergognare perfino le cellule primordiali che hanno faticato tanto per organizzarsi in un essere vivente. Se l’avessero saputo, probabilmente non ne avrebbero fatto nulla.

Le vite dei santi, degli eroi, dei poeti, degli artisti, degli scienziati, dei generali, dei grandi uomini di Stato, sono vite lontane che non ci appartengono e di cui non sappiamo quasi nulla. Sono messe lì per farci sperare, sognare, vergognare, farci girare i coglioni.

E, come se non bastasse, per i più audaci, la soluzione sembra a portata di mano: caricare la vita dei propri figli con tutti i sogni che loro hanno bruciato lungo il cammino, per vedere se almeno così è possibile riscattarla, se è possibile mondarla dai rimpianti e dai rimorsi che pesano come macigni dentro le loro putride colecisti. Nelle loro intenzioni vorrebbero salvarli dalla vita schifosa e deludente che li attende, sperando così di lenire almeno in parte il loro dolore.

Vorremmo una vita diversa, tutti i giorni, almeno una volta al giorno, senza tuttavia avere le palle per decidere che quel giorno dovrà essere diverso da tutti gli altri giorni che hanno reso la nostra vita tanto schifosa.

Vorremmo poter dire, guardandoci indietro, che c’è stato un giorno nella nostra vita, almeno uno, in cui abbiamo deciso di fare di quel giorno qualcosa di speciale. In cui siamo riusciti, con le ultime briciole di coraggio, di fantasia, di follia che ci erano rimaste, a rimestare nel setaccio dello schifo e della routine e tirare fuori una pagliuzza dorata, un cristallo di speranza, un frammento di stupore.

Forse non basterà questo a renderci ricchi, a cambiare tutto con un click; forse il giorno dopo saremo ancora ricoperti di tonnellate di melma avariata, da montagne di rimpianti merdosi e di cocenti delusioni. La nostra piccola pagliuzza luccicante andrà subito persa in fondo a qualche scatolone dimenticato chissà dove.

Anche se non sarà sufficiente, anche se non sarà l’inizio di nulla, di tanto in tanto ci sorprenderà forse il ricordo, l’onestà, la sensibilità, la consapevolezza che avremo avuto nel saper riconoscere, tra milioni di altre vite, tra migliaia di altri giorni incolori tutti schifosamente uguali gli uni agli altri, un alito di vita diverso, una piccola meraviglia racchiusa come una coccinella nelle mani d’un bambino.

E sarà la fine.

 

Domani

E allora sarà come un sonno strappato all’alba dopo una notte insonne; fingeremo d’aver dormito e di non aver udito i pianti silenziosi che si confondevano con incubi di morte.

Guarderemo la marea ritirarsi, lentamente, e lasciare scoperti relitti e piccoli animali agonizzanti.

Ripareremo i nostri occhi con una mano mentre, guardando il sole, stenteremo a credere a quanta forza occorre per riportare la vita nelle nostre città deserte.

Ricorderemo storie d’amori mai nati, strappati dal fusto, d’amanti divisi, di bugie non dette.

Storie di mani che cercano invano un corpo da carezzare, labbra lontane, confidenze e odori perduti, lavati via da disinfettanti e antisettici con la sola forza della disperazione.

Storie di figli che affidano al vento parole d’addio a madri e padri soli nei loro piccoli letti d’ospedale.

Di uomini che uccidono i padri, che allontanano le madri dalle loro confidenze, che costringono le madri dei loro figli a soccombere alle loro false parole d’amore.

Avremo ancora nelle orecchie le sirene delle ambulanze che squarciavano il silenzio delle nostre case mentre abbassando lo sguardo eravamo costretti a decidere se era meglio morire di fame o annientati dalla malattia.

Avremo guardato i rami nudi e contorti degli alberi come cunicoli interstiziali di polmoni malati, e anche quando le prime gemme avevano cominciato a farsi strada tenacemente sulla loro pelle, verso la luce nuova e calda della primavera, abbiamo avuto paura che fossero bubboni puzzolenti venuti per uccidere.

Invece vorrei una cicatrice che fosse il segno d’una carezza cercata, un ansimare d’attesa, una passione ritrovata.

Sarà come buttarsi a perdifiato da una collina in fiore senza sapere se abbiamo la forza di fermarci.

Come la prima volta che abbiamo imparato ad andare in bicicletta, il primo bacio, il primo amore e finalmente liberi dai peccati e dai pregiudizi potremo fare di nuovo l’amore come fosse la prima volta.

Sarà come scegliere di non ferire nessuno, come ritrovare un amico che si credeva perduto, come ballare in riva al mare, come scagliare un sasso e colpire il gigante impazzito proprio al centro della fronte.

Avremo di nuovo nelle orecchie le risate dei bambini, le loro piccole mani nelle nostre, negli occhi i baci dati sulle panchine da giovani amanti inesperti, labbra tremanti e umide che sussurrano parole senza passato.

Avremo giovani donne la cui bellezza sarà più potente delle lacrime che avremo versato, uomini ricchi soltanto della meraviglia con cui sapranno ancora guardare il mondo.

E per quelli che vorranno dimenticare, che non saranno più capaci di trovare la forza nell’amore, nelle stelle e nel mare al tramonto, sarà sufficiente anche solo il coraggio di fuggire da ciò che in quei giorni hanno così tanto odiato.

 

Uomini senza spessore

Credo si possa individuare una certa categoria di uomini, (anche di donne probabilmente, ma da uomo sono disposto a concedere loro di più), di cui è praticamente impossibile rilevare uno spessore.
Uomini monodimensionali, a un solo strato, un solo sapore, un solo sguardo, che per quanto provi a girarci intorno sono in grado di porgerti solo la faccia che vedi, niente di più, niente di meno.
Che di per sé potrebbe anche non essere una cosa negativa; forse uomini del genere sono incapaci di inganni e sotterfugi, sarcasmo o sottintesi, rimorsi o ritorsioni, quindi, in fin dei conti, come non sentirsi sicuri di fianco a soggetti del genere.
Però quando incappo in persone così mi vengono in mente i vini isolani corposi, i cieli di Turner, un Single Malt invecchiato 20 anni in botti di Bourbon o di Sherry. Mi viene in mente la voce della Streisand, gli intermezzi di Wagner, gli spaghetti alla carbonara, l’odore d’un giardino a primavera dopo che ha piovuto, le sere d’estate al mare in Sardegna.
Ripenso alle costellazioni del cielo che se guardi bene si vede che le stelle sono una vicina e una lontana, ai Demoni di Dostoevskij, a una poesia di Salinas, all’odore della donna che ami o della foresta amazzonica.
Ricordo le carezze date e ricevute, ovunque e comunque; i piedi nudi sulla sabbia fresca, sull’erba appena tagliata e sui ciottoli levigati, i germogli verdi d’un abete rosso, una scarpa troppo stretta, un ago troppo lungo.
E allora mi rendo conto che forse, ma dico proprio forse, barattare la libertà con la sicurezza in certi momenti della vita aiuta a sentirsi un po’ più vivi. E se sentirsi vivi non coincide necessariamente col sentirsi felici o in pace col mondo o pienamente soddisfatti, allora sempre in quei particolari momenti e, solo per noi, possiamo anche prenderci la “libertà” di dire: “ecchisenefrega!”

Una sera a teatro

Tempo fa mi è capitato di andare a teatro.

Non dirò né il teatro né lo spettacolo.

Non perché non voglia ma perché questa non è una critica a quello spettacolo in particolare o all’autore, solo una considerazione generale, che vuole andare un po’ oltre.

Fatto sta che dopo un po’, cioè dopo circa dieci quindici minuti, avevo già capito che non mi piaceva (per la verità l’avevo capito anche prima, però ho voluto concedergli il classico quarto d’ora accademico che non si nega a nessuno. O quasi).

Vari punti deboli, qualche ingenuità, gli attori così così, insomma, ci siamo capiti; il punto però è un altro.

Il punto è che mi capita sempre più spesso di vedere spettacoli che non mi piacciono, a Milano; altrove magari sarà diverso, non so.

Quindi, siccome è un po’ di tempo ormai che ci vado, a teatro, e un po’ vuol dire anni, si aprono due scenari possibili.

O il mio gusto è cambiato e sono diventato molto più esigente, a parità di qualità media; oppure il mio metro di giudizio è rimasto più o meno inalterato e la qualità degli spettacoli è scesa parecchio. Terza possibilità (anche se remota): ultimamente incappo solo in un certo tipo di spettacoli; ma personalmente credo molto più al caso che alla sfiga.

Comunque sia, la risposta ovviamente non c’è.

Potrebbe essere una combinazione dei due fattori: un po’ è cambiato il mio gusto, un po’ è scesa la qualità. Oppure la qualità media è rimasta pressoché inalterata e io sono diventato molto più intollerante a certi “spettacoli” (in tutti i sensi), che onestamente definirli imbarazzanti è riduttivo.

Non voglio infilarmi qui nel vespaio della qualità perché poi bisognerebbe tirare in ballo tutta una serie di considerazioni sulla cultura contemporanea italiana in generale, che poi non se ne esce più. Risorse, idee, artisti, società, economia, servizi occulti, deviati, interessi, insomma, un bel casino. Onestamente non mi va, e forse non ne sono neanche capace.

Né voglio tirare in ballo l’evoluzione del mio metro di giudizio, perché anche supponendo che fossi in grado di affrontare un’analisi onesta e accurata di quest’’”oggetto” oscuro, non credo che interessi a qualcuno.

Invece, tornando alla mia serata a teatro, mentre ero lì che pensavo, anzi sentivo proprio che lo spettacolo mi procurava anche un certo fastidio, mi sono affiorate alla mente (che quando non è presa da quello che sta vedendo, inizia a vagare liberamente per i cavoli suoi), tutta una serie di considerazioni che vado a elencare:

Vabbè, e mo’ che faccio? Resto fino alla fine? Uhmmm, mi sa che me ne vado prima. Sì, ma quando? Adesso pare brutto. Dovrei sfilare davanti a tutti. Poi gli attori. Per loro mi spiace.

Oltretutto mi sa che prima di iniziare hanno sigillato la sala; quindi mi toccherebbe armeggiare con la maniglia della porta, fare casino e sperare che le maschere non mi guardino troppo male. Troppe incognite. Lasciamo stare. Per ora.

Carina la maschera che m’ha strappato il biglietto entrando. Vent’anni al massimo. Per forza, quanti ne deve avere per fare questo lavoro sottopagato?

A proposito di biglietto, dov’è che l’ho messo? Tasca. Quale tasca? Questa. Qualche volta ce lo scrivono pure sopra se c’è l’intervallo. Però, anche se c’è scritto, con ‘sto buio, hai voglia…

Certo che, una volta c’avrei guardato prima. Anzi no, una volta non c’avrei proprio guardato perché ero più fatalista: se c’è, c’è, se non c’è, amen.

Invece quello che c’è sicuramente qui dentro è un caldo della madonna. Senti che roba. Strano perché di solito risparmiano pure sul riscaldamento. Sarà l’effetto stalla. O la piadina che ho mangiato. O il maglione troppo pesante. Come lo spettacolo. Cià che lo levo. Il maglione. Non adesso però. Troppo silenzio. Magari su un cambio scena. O un applauso. Ammesso che arrivino.

Nel frattempo potrei mettermi a contare i colpi di tosse, che quelli sì che fioccano. Mi sa che stasera ci scappa il record. Almeno sulla mezza distanza: fino all’intervallo. Sempre che ci sia. Potrei scriverlo nei commenti allo spettacolo. Giudizio: 89 colpi di tosse e un disperso.

Chissà, magari è proprio il caldo. Speriamo non venga da tossire anche a me che poi allora tutto sto giudizio lo sai dove va a finire.

Sarà meglio che mi levi ‘sto maglione prima possibile.

Mamma mia, però che palle ‘sta roba! No, non il maglione….Fammi pensare: ma chi è che l’ha scritta? Manco questo, ricordo. Mah…sarà che non era poi così famoso, sennò me lo sarei ricordato. Forse.

Cioè, dài, adesso, onestamente, ma li senti? Poracci, gli attori ci provano anche (qualcuno), ma non c’è una sola battuta che funziona. Tutta roba piatta. Senza il non detto. Banali. Scontate. Riportate.

Che poi, a pensarci bene, adesso non vorrei dire un’eresia, ma come si fa a credere al teatro di questi tempi? Cioè, come si fa a credere a un tipo di teatro fatto così, di questi tempi. Ammesso poi che ci sia un tipo di teatro per ogni tempo. Anzi, meglio, uno spettacolo per ogni stagione (dell’anno). Stagione-teatrale, stagione-dell’anno. Carino…

Oddio, secondo me, se uno spettacolo è bello, è bello sempre. Comunque…

Oh mamma! Uhff, senti che roba! Mi sa che qualcuno ne ha tirata una pesante.

Porca miseria. Che bomba. Attenzione! Pericolo! Evacuare la zona contaminata. Trattenere il fiato. Respirare poco. Eclissarsi. Scomparire. Tutti al teletrasporto. Ehh…Magari fossimo in una puntata di Star Trek.

La prossima volta devo ricordarmi di portare il Vicks Vaporub. Come all’obitorio. Non che io ci sia mai stato. Roba da telefilm.

Secondo me è stata quella vecchia lì a destra con la camicetta a sbuffo e la collana di perle. E gli orecchini di perle. E l’anello di perle. Se magari se le fosse mangiate le perle, invece che i fagioli di “Trinità”.

Anzi, no, guarda. Eccolo lì il colpevole: il marito. Duecent’anni minimo. Duemila spettacoli visti all’attivo, Ecco perché tossiva così prima. Per coprire il rumore. Che poi queste qui sono quelle silenziose; le peggiori. O magari invece gli è venuta tossendo. Scompensi aerobici di fine stagione (della vita). Carino, anche questo, quasi quasi me lo segno.

‘Spetta che mi levo il maglione così faccio un po’ d’aria.

Ahhh…respiro. No. Illusione. E’ durato solo un secondo. Già finito. Non ce la farò mai. Non uscirò mai vivo da qui.

Che poi, una volta fuori, che faccio? È ancora presto.

Potrei andare a casa a giocare alla playstation.

Ma io non ho mia giocato alla playstation. Non ce l’ho neanche la playstation. Infatti; m’è venuto in mente solo perché l’attrice, in scena, quella che fa la parte della madre, prima ha detto che suo figlio gioca sempre alla playstation.

Potrei provare col tablet di mio figlio. Anche se, dubito che…

O magari un film. È che non ho guardato che c’è in TV stasera. Per forza, dovevo venire a teatro.

Ci contavo su ‘sta cosa. Se solo avessi sospettato, un occhio magari glielo davo. Così mi trova impreparato.

Cià, fammi ascoltare un po’ và. Dov’è che vuole andare questa qua a cercare suo figlio?

Boh, forse sarò io che non riesco a entrare, non so. D’altronde, questi qui ridono tutti come pazzi. Pure i due vecchi scorreggioni. A me non viene proprio da ridere. Che cazzo ci sarà da ridere? Non mi sembrano dialoghi così esilaranti. A dir la verità non mi sembrano neanche ironici; o drammatici. Cioè, non si capisce proprio cosa dovrebbero essere; ecco cos’è. Boh. Colpa mia.

Chissà la maschera che starà facendo là fuori. Starà parlando con le altre maschere, immagino. Magari sono usciti a fumarsi una sigaretta e intanto decidono che fare più tardi. D’altronde, vent’anni…ehh…

Chissà se a vent’anni ci credono ancora al teatro. Magari a quell’età va bene tutto. Chissà. O fa tutto schifo. O si riesce già a capire, ma non si ha il coraggio di dirlo. Boh, io a vent’anni non capivo un accidente. E forse neanche adesso…

Potrei andare a casa e mettere su un DVD.

Ehhh…Ma, a proposito: meglio una cosa brutta che non ho mai visto da sorbirsi fino alla fine, o una mezz’ora d’un bel film che hai già visto decine di volte?

Mmmm…interessante. Potrei scrivere anche questo sul foglio dei commenti; dopo i colpi di tosse. E prima del disperso.

Mi sento un disperso. Un naufrago ribelle. Un ossimoro esistenziale suburbano.

Sto vaneggiando. Sarà il caldo. E la puzza di merda.

 

Una corsa al parco

 

Questa è la storia di cinque bambini, tutti maschi, tra i sette e i nove anni. È un bel pomeriggio di giugno, la scuola è finita da un paio di giorni e si ritrovano tutti insieme a giocare al parco. Le loro mamme li tengono d’occhio da lontano, sedute su due panchine vicine; intanto chiacchierano. I cinque amici hanno appena finito di mangiarsi ognuno il suo bel cono gelato: cioccolato, stracciatella, pistacchio, crema, fragola, con i relativi incroci. Visto che gli è venuta sete, il più grande dice: perché non ci facciamo una corsa intorno al parco? Il primo che arriva beve per primo alla fontanella. L’ultimo per ultimo. Gli occhi dei cinque amici passano velocemente in rassegna quelli di tutti gli altri, soprattutto quelli di R, che ha otto anni ma che è il più veloce di tutti. Loro lo sanno, lui pure. Alla fine decidono per il sì, e il più grande s’incarica di dare il pronti, partenza, via! Dopo soli dieci metri, R è già due metri avanti a tutti, e gli amici, tra l’incredulo e il rassegnato, non possono far altro che tenere gli occhi puntati sulla sua maglietta a righe bianche e blu, sperando in un miracolo. Se lo ricordavano veloce, ma non così; le braccia e le spalle spingono giù in basso e un po’ in fuori come se stesse spostando acqua invece che aria e le gambe, che girano veloci come quelle di Beep-Beep di Wile Coyote, sollevano piccole nuvolette di polvere dove i piedi toccano terra. Alla prima curva R li precede di quasi tre lunghezze, e agli inseguitori non rimane che lottare per la seconda posizione. Il parco scorre velocemente ai lati di R. Passa alla sua destra gli scivoli, le altalene, la carrucola sul filo d’acciaio, a sinistra tiene la siepe che delimita il parco. Improvvisamente, quasi senza rendersene conto, abbassa lo sguardo e si ferma. Butta fuori tutta l’aria e torna indietro di qualche passo. Si china come per raccogliere qualcosa e, ancora ansimando, s’acquatta sul ciglio della stradina infischiandosene di tutto e tutti. Gli altri quattro non ci possono credere. Sono su di lui in un baleno, uno dopo l’altro. All’inizio sembrano fermarsi, o almeno questo è quello che fa il secondo, e il terzo, gli si fanno intorno per vedere che diavolo c’è di così interessante da mollare a quel modo una gara già vinta. Ma poi arriva il quarto e il quinto, cui non importa un accidente di capire cosa stia succedendo e anzi, passando, si sentono pure in diritto di tirare una scoppola ai due che s’erano fermati, nella speranza a questo punto di giocarsela loro due. A questo punto però, quelli che s’erano fermati con R, un po’ per la sberla e un po’ vedendo che in fondo rimane ancora quasi mezza gara da correre, ripartono all’inseguimento più veloci che possono. A pochi metri dal traguardo riescono addirittura a riprenderli e a superarli, restituendo la scoppola con relativi interessi. Quando dopo molto tempo R li raggiunge, gli altri quattro hanno già bevuto a sazietà e se ne stanno seduti nell’erba con la pancia piena d’acqua. Guardando R che si rimira tra le mani un mazzolino di margherite e un sasso luccicoso che brilla al sole come un diamante grezzo, uno di loro gli chiede: ma perché ti sei fermato? Al che R, mostrando quello che ha in mano, risponde: perché sono belli.

 

 

Vanità primaverili

 

Per dire, i bambini…L’altro giorno ero al parco con mio figlio, sette anni, e lui, guardandosi un po’ in giro, mentre leccava un cornetto mi fa: “Sai papà, secondo me, quelli che vanno in giro senza maglietta non hanno tanto caldo, lo fanno solo per farsi vedere i muscoli”. Era una giornata bellissima, cielo cobalto, milioni di Watt di sole splendente e una brezzolina appena appena che toglieva qualsiasi traccia d’indolenza dalle ossa. Dall’alto dei trentasette anni che ci separano ho subito pensato al giudizio, alla morale, a Narciso, al comune senso del pudore…centinaia, se non migliaia di anni di sovrastrutture e regole più o meno scritte che ci dicono, o dovrebbero dirci in ogni momento, cosa sta bene e cosa non sta bene fare. Specialmente in pubblico. Quindi, così a caldo, ho pensato: cazzo, ha ragione, ma sei ridicolo, e mettitela ‘sta maglietta, dove credi di essere? In spiaggia? Sì bravo, la tartaruga e i pettorali li abbiamo visti tutti, ora però puoi pure rimettere via tutto e lasciarci godere in santa pace le barchette dell’idroscalo.

Perché in effetti è così che funziona: tu sei lì tranquillo che ti godi il tuo gelato con le barchette che fanno avanti e indietro sull’acqua sbarluccicante, e questo qui fa finta di correre in mezzo alla calca del sabato pomeriggio mettendo in mostra la mercanzia. E così tu lo guardi, per forza lo guardi; perché a quel punto le barchette e le paperelle passano in secondo piano e non ti bastano più. Che tu sia maschio o femmina, adulto o bambino, gay o etero, vieni rapito, o ditratto, o disturbato, o quello che vi pare, da quel corpo sudaticcio che s’infila trionfalmente tra te e il mondo.

E infatti, stavo quasi per trovare qualcosa di intelligente da dire a mio figlio, qualcosa che gli desse prova di quanto suo padre fosse saggio e tollerante, o rigido e bacchettone, a seconda dell’ispirazione, che lo becco che sta già tormentando una formica atomica sul tavolino di plastica a cui siamo seduti. Per la serie, sì vabbè, hai visto quello, papà, ma guarda adesso quant’è figa questa formica che mi vuole fregare i pezzettini di cialda. Allora, invece di dire qualsiasi cosa, mi sono sollevato a una ventina di metri da terra e ho aperto lo sguardo su ciò che stava realmente accadendo tutt’intorno. Ed è stato un attimo. Mi son detto: ma che…ma che altro è la primavera, il sole caldo, il cielo altissimo per chilometri sopra di noi, se non un’esplosione di vanità?Un’esplosione di energia che travolge tutto e tutti resettando i cicli vitali sopiti da mesi, facendoli ripartire a passo di carica. Alberi, fiori, uccelli, insetti, uomini e donne, si ritrovano finalmente vicini liberi di toccarsi e annusarsi dopo i pudori e i minimalismi invernali. Non è meraviglioso? Non è vitale?

La vita stessa è vanità. Perfino scrivere è vanità, o dipingere, o progettare la torre Eiffel. Tutte le volte che facciamo qualcosa sperando che qualcun’altro ci guardi, o ne sia impressionato, o ci dica: bello! automaticamente ci poniamo in relazione con i nostri simili cercando l’approvazione. L’uccellino nel nido che spalanca il più possibile il becco giallo travolgendo i fratellini, lo fa per farsi notare dai genitori e ricevere in premio il verme più grosso. E quasi sempre l’ottiene. E’ vanitoso? Boh! Ogni slancio, ogni iniziativa, ogni nuova idea è, per definizione, vanitosa, o vanit-aria, che suona ancora più fresca e prorompente.

Ostentarsi è una vocazione primaria di tutto ciò che esiste, o meglio, che vuole esistere. Poi noi, giustamente, dall’alto della nostra saggezza di uomini e donne maturi, spaventati da tanta potenza dirompente, ci mettiamo dei paletti col recinto e tutto, tentando d’imbrigliare quell’esuberanza ormonica e adolescenziale che rischia l’autocombustione. Anzi, con un occhio un po’ più egoistico, rischia di travolgere anche noi relegandoci in soffitta con le palline di naftalina nelle orecchie.

Con questo non sto dicendo che dobbiamo andare in giro nudi o ad accoppiarci nei prati (almeno non di giorno…), sto dicendo che, come spesso accade, guardare di tanto in tanto le cose con gli occhi meravigliati e trasparenti di un bambino, non può che predisporci a un nuovo modo di vedere e di percepire il mondo, che è poi la sola strada per intravvedere il cambiamento.

Time flies

Time flies. It’s too fast!

Time flies. Molto simile al nostro: “il tempo vola”.

Ma “to time” vuol dire anche “cronometrare”. Quindi tutto intero sarebbe anche: “cronometra le mosche – sottointeso – non posso, troppo veloci!”.

Il tempo vola, il tempo fugge, anzi sfugge e non ritorna. Inutile rimpiangere. Rimorsi sempre, rimpianti mai.

In caso di noia rompere il vetro e “ammazzare il tempo”.

Neanche fosse una minaccia, un ragno velenoso, un vizio che nuoce gravemente alla salute.

Il tempo uccide…? Alla lunga di sicuro, ma più lo si rincorre e più la tartaruga è sempre un passo avanti a noi. Incredibile. Paradossale.

E non ce n’è mai abbastanza, chiedete in giro, come la grana. Perfetta quindi l’equazione: il tempo è denaro.

In tempi di crisi ci si affida alla “Banca del tempo”. C’è solo da sperare che non applichi tassi troppo elevati.

In effetti è relativo, e molto elastico, ma questo già si sapeva da secoli. Pesa più un’ora sulla sedia del dentista o un’ora su un prato in fiore a primavera con il nostro amore più grande?

Magic moments, momenti magici, momenti d’amore. Istanti che segnano una vita e ore che volano veloci come mosche sul miele.

In amor vince chi fugge. A parte Dafne, che finì tramutata in un albero per sfuggire ad Apollo che la voleva.

È più veloce il tempo o l’amore? L’amore uccide? Mah…non più degli ubriachi al volante; però fa tanto male. L’alcool aiuta l’amore? Fino a certo punto. Fino a un certo punto.

Mosche sul miele. Mosche sulla cacca. Ma sono le stesse mosche dalla bocca buona o mosche diverse con gusti diversi?

E noi chi siamo? Cosa siamo? No perché le mosche non vanno solo sul miele o sulla cacca…

Non rispondetevi, non subito.

 

 

Smottamenti dell’anima

Avete presente quando siete lì, al calduccio, da qualche parte, soli, sdraiati sotto una coperta o chiusi in un giaccone tirato bene su fino al mento? Vi state prendendo un attimo. Tutto per voi. Solo un minuto. Magari due. Adesso vado. Scendo. Entro. Tra poco mi chiamano…

Chiudete gli occhi, e lasciate i pensieri liberi di andare e venire come gli pare, senza scopo, senza meta, di sgattaiolare fuori dalla vostra mente come spettatori da un cinema a spettacolo iniziato.

All’improvviso, un’immagine, un volto, un ricordo, un colore, si affaccia alla vostra mente e strappa il sipario con un rumore terribile. Non una parola di preavviso, una musichetta, un beep, niente. Solo un flash! Uno sparo nel buio. Si abbatte su di voi e il cuore salta subito in gola, ovviamente. Il cervello grippa e si ferma su quel fotogramma osceno incapace di andare avanti o indietro. Bloccato. Un granello di sabbia che sembra un macigno incastrato tra ingranaggi delicatissimi. Magari accompagnando il tutto con una leggera fitta da qualche parte che vi costringe pure a trattenere il fiato: qualcosa al petto, dietro le scapole, alla testa, alle mani, in quel muscolo piccolissimo che non sapevate neanche di avere.


Voi a questo punto lottate. Non ci state a farvi divorare così da quello squalo grigiastro che vi ha scambiato per una foca. Lo rivolete indietro quel cazzo di bagnetto che vi stavate facendo al tramonto nell’acqua bassa e cristallina di quella spiaggia meravigliosa. Porca puttana era solo per un minuto…E così vi dimenate, gli mollate pugni, calci, gomitate, combattete contro il mostro con tutta la forza che avete in corpo. E nella mente.
Poi, all’improvviso, così com’era arrivato, quel bestione vi molla, vi risputa, perché ha visto che non ne volevate sapere di crepare, e che dopotutto il vostro sapore non era granché.


Alla fine ritorna la calma, il silenzio. O quello strano vocio che c’era intorno. Ma qualcosa è successo. E’ passato, pare, ma senz’ombra di dubbio è successo, e voi sapete molto bene di che cosa si tratta. Tutto ciò che si può fare è leccarsi le ferite. Sgombrare la strada dal fango e dai detriti per cercare di ristabilire un collegamento. Con un dopo, poco più avanti.