Come si fa a credere al teatro di questi tempi?

 

Che cos’è il teatro?

Qualcuno dice: il teatro è lo specchio della vita.

Qualcun altro: il teatro è una rappresentazione della realtà.

C’è addirittura chi dice, spingendosi un po’ più in là, che sia l’essenza stessa della vita.

Tre definizioni sicuramente stringate e riduttive, ma da cui emerge abbastanza chiaramente che abbiamo a che fare con qualcosa di estremamente potente e, forse proprio per questo, difficile da afferrare, descrivere, comprendere.

Letteralmente il teatro rimanda a qualcosa che “sto guardando”, a uno spettacolo dal vivo, qualcosa che, riducendolo all’osso, ha bisogno fondamentalmente di una persona che guarda e di un’altra che fa qualcosa. Non solo però. Sarebbe un po’ troppo facile…Perché succeda “qualcosa” che vada al di là del semplice fatto quotidiano, è necessario che quelle due persone (due o più) accettino di credere che quello che sta succedendo non sia strettamente “reale”, ma una sorta di reale di grado superiore, un simbolo collegato al nostro vissuto che ne amplifica enormemente il significato.

Per ottenere questo, è necessario infatti uno sforzo personale di abbandono, che faccia cadere temporaneamente le resistenze sia nei confronti di ciò che sta accadendo sulla scena, sia di ciò che è accaduto e che sta per accadere dentro di noi.

Coleridge la definiva “sospensione dell’incredulità”, ovvero la sospensione temporanea della capacità critica dello spettatore, al fine di entrare in relazione (credere) con l’opera di fantasia. Se non credi, non riesci a immedesimarti e a provare ciò che i personaggi provano e ciò che gli attori stanno cercando di esprimere. Una volta che “credi”, entri a far parte anche tu di quella dimensione che include contemporaneamente sia il reale che il fantastico, in un continuum dal quale è possibile entrare e uscire a piacimento.

Ciò che accade durante uno spettacolo teatrale, accade in quel momento, in quel luogo e in quel tempo, quindi è unico e irripetibile; proprio come dovrebbe esserlo ogni istante della nostra vita. Ma c’è di più. Il patto che si stabilisce tra attori e spettatori crea uno scambio, una specie di collegamento tra un lì e un altrove che attinge a tutto il mio bagaglio di vita passata, presente e futura; che io sia interprete o spettatore.

Gli attori, da parte loro, prendono il testo, le parole dell’autore, e gli danno vita in una sorta di rito liturgico a cui tutti partecipano e a cui tutti accettano di credere; loro per primi. Proprio loro infatti sono portatori della prima grossa contraddizione, essendo al tempo stesso immersi nel reale e nella dimensione fantastica del personaggio a cui stanno dando corpo. Sono contemporaneamente presenti e non-presenti a se stessi, come potrebbe esserlo uno sciamano o un monaco in meditazione.

Da un certo punto di vista, la parola che si fa carne e diventa vita (per me, per te, per tutti) rimanda ovviamente all’ambito religioso cristiano, in cui gli attori non sono altro che i sacerdoti che officiano il rito, permettendo il collegamento tra il mondo reale e quello fantastico, onirico, “divino”.

Tutto sommato, niente di nuovo, se paragonato ai riti più ancestrali della storia dell’uomo da quando è sceso dagli alberi fino ad oggi.

L’arma segreta del teatro, se così possiamo dire, è che, a differenza di un romanzo o di una poesia, in cui comunque la parola ha un ruolo centrale e in cui forse lo sforzo “immaginifico” è perfino superiore, entra prepotentemente nel mondo fisico reale nel momento stesso in cui l’attore dà vita al personaggio sulla scena. È l’attore che permette il collegamento tra i due mondi, quello reale e quello fantastico. Ed è proprio la risonanza tra questi due mondi, l’entrare e uscire dal reale al fantastico, ad amplificare l’effetto di immedesimazione, aprendo il collegamento con il reale di grado superiore, un reale che comunque attinge e si innesta sull’esperienza personale di tutti coloro che partecipano allo spettacolo, attori e spettatori. La scena di due amanti che si baciano sulla scena ci riporta a quella volta con il nostro primo amore nella cabina sulla spiaggia.

Se affrontato razionalmente, tutto questo sfocia ovviamente in una sorta di corto circuito mentale che mette a dura prova le nostre capacità di interpretazione. Verrebbe infatti da chiedersi: dove mi trovo in questo momento? È finzione o realtà? Quale faccia della medaglia sto guardando?

E questo probabilmente è dovuto al fatto che quando dobbiamo attingere alla nostra parte inconscia e al nostro vissuto, l’effetto di fastidio e disorientamento che ne deriva, tende a farci fuggire verso la nostra parte razionale che ci riporta immediatamente coi piedi per terra.

Il problema è che anche la ragione non sempre è in grado di darci tutte le risposte. E sulla base di cosa poi? Dei nostri sensi? Della nostra capacità logica? Delle parole che sto ascoltando?

Perfino il nostro linguaggio, se ci pensiamo bene, è fonte di ambiguità. Pensiamo a una frase come: “Questa frase è falsa”. Che cosa possiamo dire? E’ vera? E’ falsa? E’ entrambe le cose? I paradossi, di cui questa frase è forse l’esempio più semplice, esprimono bene il concetto di ambiguità che sta alla base di una condizione (o un’affermazione) di cui non sappiamo dire esattamente se sia vera o falsa. Questo perché anche il nostro linguaggio è limitato, specialmente quando tenta di descrivere se stesso o, come si dice, di autoreferenziarsi.

D’altra parte, succede anche il contrario: si possono anche costruire numerose frasi che non significano assolutamente nulla, ma che hanno un valore di verità ben definito (tautologie): “Questo foglio è bianco perché bianco”.

L’uomo, appunto perché non è Dio, non è in grado di produrre modelli “perfetti”.

Quando diciamo di indagare la “realtà”, in effetti stiamo investigando soltanto le proprietà dei “modelli” che abbiamo costruito per descrivere la realtà. E questo non soltanto in ambito linguistico o scientifico, ma anche filosofico, teologico, etico,…

Un altro esempio di corto circuito, forse il primo con cui l’uomo ha dovuto fare i conti, è legato al mondo onirico. Come facciamo a essere sicuri, quando sogniamo, che quello che ci sta succedendo non sia reale? O che ciò che viviamo nel mondo reale non sia in realtà un sogno? Pensiamo alle opere di Shakespeare, o film come Matrix, Truman Show…

Quindi, tutti noi, quando “viviamo”, non sperimentiamo la vera essenza delle cose, ma il loro modello di riferimento mediato attraverso i sensi, ed è per questo che la nostra mente fatica a distinguere tra sogno e realtà, perché effettivamente, ciò con cui abbiamo a che fare, tutti i giorni, è la percezione di un qualcosa in cui siamo immersi e di cui facciamo parte (la realtà), ma che comunque sta fuori di noi.

A questo punto la domanda che verrebbe da porci è: E’ possibile sapere sempre, a partire dalle condizioni in cui ci troviamo, se ciò che stiamo sperimentando è vero o falso? Ovvero in linea con ciò che stiamo percependo.

In altri termini: c’è un modo per accorgerci della differenza? Di qualcosa che non va? Di capire che cosa genera le ombre che vediamo sulla parete di fondo della caverna del mito di Platone.

Tutto lascia supporre che non ci sia.

Abbiamo già visto, per esempio in ambito linguistico (paradossi), che ciò non è possibile, non sempre per lo meno. E per quanto riguarda i sogni, spesso si confondono con la realtà e ci spingono a dubitare di noi stessi.

Un grande logico-matematico austriaco di nome Kurt Godel, nel 1931, è stato in grado addirittura di dimostrarlo matematicamente. Egli cioè, nel suo teorema di incompletezza, ha dimostrato che all’interno di un sistema formale (coerente), non è possibile dire di tutte le proposizioni derivanti dagli assiomi, se siano vere o false. C’è n’è almeno una di cui non possiamo dirlo con sicurezza. Ovvero, in alcuni particolari modelli costruiti dall’uomo per descrivere la realtà, c’è la chiave per dimostrare che non tutte le verità presenti in natura sono conoscibili mediante un percorso razionale che ci arriva. E, d’altra parte, utilizzando tutti gli strumenti che abbiamo messo sul tavolo per costruire questo modelli, potremmo arrivare ad affermare qualcosa e il suo contrario, senza sapere se abbiamo sbagliato qualcosa nel procedimento utilizzato oppure se è così perchè è così.

Quindi, perfino la matematica ci autorizza ad avere dei dubbi. O meglio, ci solleva proprio dal dubbio, affermando che è insita nelle proprietà stesse dei sistemi formali, l’incapacità di poter decidere sempre dove ci troviamo. È come se tutti i tentativi fatti dall’uomo di creare “modelli” per descrivere la realtà cadano miseramente in contraddizione nel momento in cui tentano di descrivere se stessi, ovvero di trovare una dimostrazione che li auto-sostenga, costituendosi come realtà alternative (sostituendosi) a quella reale a tutti gli effetti.

Se consideriamo il teatro come un modello che “simula” la realtà, quindi un modello reale che tenta di descrivere la realtà, non possiamo pensare di poterne venire a capo con la ragione, ma ci dobbiamo “credere”, mettendoci qualcosa che va al di là della semplice valutazione razionale basata sulle percezioni che arrivano dai sensi. Ed è appunto questo sforzo, questo mutuo scambio, questo entrare e uscire, che mi consente di riferirlo ad una realtà che non è (solo) quella cui sto assistendo in quel momento.

Un altro esempio interessante ci viene dal racconto “Flatland”, dove un essere a due dimensioni percepirebbe una sfera che attraversasse il suo mondo come un cerchio che taglia il piano bidimensionale cui appartiene. Ci vuole un certo sforzo per immaginare tutta la sfera (ancora il mito della caverna!). Bisogna crederci. E più lo sforzo è grande, più l’effetto di immedesimazione sarà efficace. Il problema è che, in alcuni casi, non sapremo mai se quella che stiamo osservando è una sfera che taglia il piano o solo un cerchio che abbiamo incontrato sul nostro cammino.

Il teatro, a differenza di altri tentativi di descrivere e racconatre la realtà (film, video, gli stessi libri), è uno degli strumenti più potenti che abbiamo. Esso infatti usa lo stesso linguaggio (genericamente inteso) della realtà: dialoghi, rumori, corpi, sguardi, emozioni, odori…., e lo sentiamo molto affine e complice nello sforzo che dobbiamo compiere, trasportandoci direttamente nel nostro mondo inconscio e irrazionale.

Ovviamente, come tutte le “rappresentazioni” o le liturgie, si avvale di convenzioni, codici, formule, strutture, che ci aiutano e ci proteggono, che ci guidano nel viaggio che stiamo intraprendendo verso l’ignoto, proprio come un rito, o come un gioco.

Non esistono infatti giochi senza regole. Se non ci sono regole e se non le accetto, non partecipo e non mi diverto. Quanto più credo al gioco che sto facendo, tanto più mi diverto e ho voglia di vincere il premio.

Oggi, le moderne macchine di simulazione della realtà hanno fatto passi da gigante nel tentativo di ingannare i nostri sensi, facendoci credere che stiamo vivendo un’esperienza più vera del vero. In un futuro vicinissimo, saranno perfino in grado di farci vivere esperienze virtuali di gruppo talmente reali che crederemo di essere in un certo posto, tutti insieme, a fare una certa cosa, o perfino ad assistere a uno stesso spettacolo, senza che ci rendiamo conto che ciò che accade sta accadendo veramente o se sia il parto di una macchina. A quel punto, per molti di noi, potrebbe anche non essere così importante cogliere la differenza, lo sforzo che dovremmo compiere per “immaginare” altro portebbe non valere la candela. Tuttavia, per quanto sofisticata e complessa, questa macchina, sarà pur sempre un modello creato dall’uomo, e quindi prevedibile, autoreferenziale, e come tale, incompleto.

Nessun sistema di simulazione creato dall’uomo, per quanto avanzato, potrà mai sostituire lo sforzo fisico, mentale ed emotivo che dobbiamo compiere quando accettiamo di prendere parte al duello di Amleto o all’ultima battaglia di Riccardo III.

Questo perché il teatro non vuole simulare la realtà ma, grazie alla sua doppia natura di realtà e finzione, contiene ancora un certo grado di imprevedibilità capace di far accadere ogni volta qualcosa di nuovo e personale, in quel momento, in quel luogo, frutto della fatica delle persone che vi partecipano e che vogliono godere insieme del premio finale.

 

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