Categoria: Riflessioni

Paesaggi dell’anima

 


A 25 anni il mondo è pronto per essere addentato come un frutto maturo e succulento. Prendiamo Adamo: quando Eva gli mette sotto il naso una mela dolce e profumata, non può far altro che cedere alla bontà del frutto e alla bellezza della femmina, o viceversa. Biancaneve, ancor più giovane e bella, dopo esser fuggita dal castello per cercare la sua strada, addenta anche lei la sua mela, ma solo per poi cadere addormentata a causa del malefico veleno. Questo a significare che il mondo-mela è certamente dolce e affascinante, ricco di sorprese e di opportunità, ma anche insidioso e costellato di pericoli.

Ci vuole dunque coraggio e accortezza…come se fosse facile, a 25 anni. Oggi come oggi, siamo letteralmente sommersi da un immaginario che può attingere da film, documentari, libri, Wikipedia, Youtube, Youporn, tutto è già lì in bella mostra sugli scaffali pronto per essere acquistato e assaggiato, mangiato, digerito e rispedito nel mondo. Nulla sembra impedirci di afferrare tutto quel ben di Dio e portacelo via. Una volta capito che tutta quella roba non è che un miraggio, un riflesso di ciò che dovrebbe essere, di ciò che realmente val la pena di essere mangiato, è o dovrebbe essere relativamente facile lasciare la nostra personalissima impronta sulla sabbia a imperitura memoria per i posteri. Una spessa colata di fango la ricoprirà per bene e tra 100 milioni di anni sarà ancora lì a stupire i paleontologi di Xilon834/ter, in visita sulla Terra dalla costellazione dell’Aquario.

A 35, se tutto è andato come previsto, qualcosa dunque abbiamo visto e assaggiato. Pensiamo che sì, effettivamente il mondo è piccolo e che in linea di massima abbiamo capito quali sono i meccanismi che lo regolano; se non facciamo troppe cazzate, se non ci perdiamo in qualche isola remota inseguendo una chimera, non ci sono praticamente limiti a quello che possiamo fare. Se abbiamo voglia e buona volontà, possiamo, se non proprio piegarlo al nostro volere, almeno imporgli un nostro personalissimo modo di vedere le cose. Sogni, progetti, buone idee (che a noi sembrano addirittura “rivoluzionarie”) che ci portiamo dietro dalla nascita, aspettano solo di essere messi nel mirino e affondati; realizzarli sarà solo questione di tempo. Magari qualcuno dei nostri simili riuscirà perfino ad accorgersene e verrà pure a dirci bravo, ricoprendoci di soldi, fama, potere.

A 45 anni fai un po’ i conti con l’oste. Guardi il tavolo, chi hai davanti, gli altri commensali e t’accorgi che forse tutto questo potere non è ancora arrivato. E ti chiedi il perchè. Troppo presto, troppo tardi? Troppo grosso il bersaglio? Non si sa. Fatto sta che se non succede nulla di clamoroso, probabilmente il “successo” con la “s” maiuscola (o anche semplicemente minuscola) non arriverà più. (Quelli di voi per cui soldi, fama e potere sono effettivamente arrivati, sono invitati a saltare direttamente all’ultima parte di questo testo). Cominci a valutare l’ipotesi che forse sei stato ingenuo, presuntuoso, idealista, facilone, sfortunato, invidioso, inefficace, o forse semplicemente che non avevi niente di così importante da dire. Pensare di poter capire tutto, di visitare ogni angolo del globo, di poterlo cambiare magari in meglio, di inventare la macchina del tempo, di poter comprendere le esistenze di ogni singolo essere umano come se il codice di Matrix l’avessi scritto tu, era un tantino pretenzioso.

A 55 anni se nessuna singolarità s’è ancora presentata nella tua vita (tipo una vincita al Superenalotto, la scoperta della crema che fa ricrescere i capelli, o il ritrovamento d’una vena diamantifera nel giardino di casa) dovrai cominciare a fare i conti con l’idea che non avrai più la possibilità d’imporre niente a nessuno, non sarai il prossimo Steve Jobs, il futuro Nicola Tesla o un altro John Lennon. Farai fatica a imporre ai tuoi pochi capelli una piega accettabile, al tuo girovita una forma decente, ai tuoi figli un modo rispettoso di valutare il prossimo. Avrai qualche amico su Facebook che non vedi mai, e pochi conoscenti in carne e ossa che faresti volentieri a meno di vedere. La tua sfera d’influenza arriverà a stento al tuo pianerottolo, i tuoi figli ti chiameranno ogni tanto per chiederti dei soldi e tua moglie, se sarà ancora nei paraggi, comincerà a pensare se non è meglio per tutt’e due dormire in camere separate.

A 65 ti si squaglierà il cuore quando la tua nipotina ti sorriderà chiamandoti nonno e a quel punto qualsiasi ricordo o velleità di dominio sui tuoi simili andrà a farsi fottere.

A 75 anni, ammesso d’arrivarci, vedrai il tuo corpo farsi duro e secco come la roccia del deserto. I tuoi sensi (per fortuna) t’abbandoneranno, e lentamente, senza che tu te ne accorga, ti chiuderai in un mondo inodore, insapore e ovattato, lasciandoti libero dalle frustrazioni e dalle passioni che tanto t’hanno fatto dannare durante la tua insipida, normalissima vita.

E questo è quanto.

Troppo pessimista? Semplicistico? Non credo. O forse un po’, ma non importa. Ognuno di noi, onestamente, può fare due conti e ritrovarcisi, oppure no. In parte o in toto. A budget o a consuntivo. Non importa. E’ solo un certo modo di vedere le cose. Ognuno è libero di pensarla come vuole e soprattutto di credere a quello che gli pare. In ogni caso, credo, non ci sarebbe nulla di male nel ritrovarsi a soppesare la propria vita come quella d’un uomo qualunque a cavallo tra XX e XXI secolo. Forse la forza sta proprio nel riconoscersi mantenendo una propria identità all’interno del gruppo; ma chissà, potrei sbagliare…

Mi si dirà: impossibile categorizzare, l’uomo qualunque non esiste. Benissimo, allora diciamo che, in ogni caso, se un uomo del genere dovesse esistere, a me sarebbe quasi simpatico. Per tutti gli altri c’è ben altro….Vediamo.

Ogni vita, nel bene e nel male, nella salute e nella malattia, è una singolarità. Giusto!

Ogni essere umano è speciale, giusto! ma è anche piccolo e cattivo; capace di donare e donarsi, di piccoli sacrifici e di grandi slanci: da una piccola offerta al poveraccio in metropolitana fino al sacrificio della propria vita per un suo simile, famigliare o sconosciuto, nel breve spazio d’un minuto o nell’arco d’una vita intera.

Posto che il paradiso in Terra non esista, quest’(altro) uomo fuori dagli schemi e a-normale si trova dunque a dover fare i conti tutti i giorni con le sue miserie e con le sue piccole soddisfazioni, a doversi riconoscere un minuto prima in Dio e quello dopo in Satana, a ritrovare dentro di sè tracce di polvere (di stelle) e (per chi ci crede) immortali, ma anche di polvere e basta, della più sporca e unticcia, tipo quella che scende dalla cappa della cucina quando bolle l’acqua per la pasta.

Tempo fa guardavo un documentario sulle vittime del genocidio in Cambogia ad opera di Pol Pot. Qualcuno asseriva che dopo anni da quei fatti orribili è più facile ottenere aiuti per lo Tsunami che per le vittime del genocidio. Questo perché lo Tsunami è una catastrofe naturale, quindi ineluttabile, quindi scevra da qualsiasi questione morale. Il genocidio invece è come se ci riguardasse, come se ci facesse sentire in colpa per quello che è successo, e di qui la difficoltà a prendere posizione. Di fronte al male si rimane interdetti, come se si faticasse a riconoscerlo e a chiamarlo per nome.

Hannah Arendt, dopo il processo Eichmann, ha parlato di “banalità del male”, per sottolineare appunto che quell’uomo così insignificante e quasi banale era stato capace di azioni orribili senza che nessuno potesse farci niente. Titolo senz’altro azzeccato, ma probabilmente un po’ fuorviante. Forse c’è davvero della banalità in un uomo che si è reso strumento di un tale malefico progetto spacciandosi per un semplice burocrate che faceva il proprio dovere. In realtà un male così fatto non è mai banale, piuttosto siamo noi (altri) esseri umani che tendiamo a spersonalizzarlo, come se fosse un concetto assoluto, inaccettabile, slegato dagli individui che lo compiono, e proprio per questo più difficile da stanare; richiede quindi fermezza e coraggio per essere riconosciuto e additato per quello che è. Ovviamente non è facile individuare e punire le responsabilità dei singoli; giudicare ed essere giudicati è forse l’atto più difficile che un uomo è chiamato a compiere nei confronti dei propri simili; nondimeno non si può sfuggire al proprio dovere. Se non per la legge, almeno per le vittime che sono state annientate e degradate da altri uomini a livello di animali, obbligate a dover combattere ogni giorno coi propri simili per un chicco di riso.

Basta leggere “Se questo è un uomo” di Primo Levi per rendersi conto di quanto disumanizzante fosse la “vita” in un campo e allo stesso tempo quanto poco spazio ci fosse in quell’orrore, per un giudizio verso i carnefici. C’era solo l’istinto, quotidiano e inconsapevole, a sopravvivere.

Alle vittime, ai sopravvissuti, rimane per sempre appiccicato un sottile senso di colpa, come una bava mefitica, come se in fondo avessero sentito di meritare quello che stava loro accadendo, rintanandosi nell’inevitabilità della loro condizione, condannati a preferire una morte rapida e immediata alla sofferenza di una vita che non aveva più alcun senso.

Per fortuna, l’umanità, insieme ai vari Hitler, Pol Pot, Stalin, è riuscita a produrre anche individui come Gandhi, Mandela, Gesù. Ma non so se questo sia sufficiente a salvarci tutti.

Così come tendiamo a spersonalizzare il male, analogamente tendiamo a spettacolarizzare il bene, slegandolo dall’uomo. Basta vedere com’è facile chiamare eroe un vigile che fa il proprio dovere, o un bagnino, o l’autista di un autobus.

“Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”, diceva Brecht.

E nemmeno quando siamo chiamati a riconoscere i piccoli gesti, nel bene e nel male, ce la caviamo tanto meglio. Le piccole gentilezze, le carezze, uno parola rassicurante, uno sguardo amico, svaniscono come pioggia nel deserto insieme ai piccoli imbrogli, alle bassezze, al superare la fila di macchine per infilarsi all’ultimo. Si fa finta di niente. Un sopracciglio alzato, mezzo sorriso. Poco di più.

Sembriamo essere incapaci di avvicinarci gli uni agli altri, sempre in fuga dall’uomo, altrove. Come se non riuscissimo a stargli accanto, a guardarlo negli occhi. Come se ne temessimo la presenza.

Perché è così difficile stare vicino a un uomo e guardarlo negli occhi?

Forse perché abbiamo paura di quello che potremmo vederci riflesso. Ma è solo la prima risposta che m’è venuta in mente. Forse altre se n’è date Marina Abramovic durante la sua performance al Moma del 2010 “The artist is Present”. O forse no.

La realtà è che siamo deboli e imperfetti, quasi normali, a sprazzi dotati di slancio.

Siamo necessario e contingente, essere e non-essere. Mischiati insieme. In dosi variabili nel tempo e da individuo a individuo.

Volendo trovare una sorta di compromesso quantistico, potremmo dire che quanto più precisamente riusciamo a definirne uno, tanto più indefinito ci risulta l’altro. E viceversa. Senza possibilità di salvezza.

All’inizio relativizzare è più difficile, a vent’anni tutto è possibile e quasi niente è probabile, il futuro è un insieme infinito di futuri possibili; il contingente è sacrificato a scapito d’una forte visione del mondo.

Alla fine sappiamo che tutto passa, che non siamo altro che polvere di stelle e che quando i nostri occhi si chiuderanno, anche la luce sull’universo si spegnerà per sempre.

Non è nichilismo, è coraggioso realismo con uno schizzo di speranza sul presente. Il futuro è lontano; troppo per poterne sopportare il peso.

 

 

Homo respons-habilis, ovvero il tramonto della/e professionalità

Sta accadendo qualcosa. Qualcosa che sta prendendo piede abbastanza rapidamente. Non so esattamente come definirlo, non vorrei sembrare polemico o qualunquista. Odio essere qualunquista. Generalizzazione e qualunquismo sono la morte dell’individuo empatico e soprattutto di una storia che valga la pena di essere raccontata. Tenterei quindi un’interpretazione un po’ più scientifica, induttiva, che troppo male non fa’, non si erge a verità assoluta e soprattutto può essere smentita da chiunque in qualsiasi momento. Diciamo quindi per il momento che, secondo me, qualcosa a un certo punto è successo, e sta ancora succedendo.

L’ho chiamato “Tramonto della/e professionalità”, ma avrei anche potuto chiamarlo menefreghismo, apatia, pressapochismo, scoglionamento sociale.

Mi fa orrore pensare di dover aggiungere subito: “una volta non era così…” sa veramente di vecchio e noioso (oddio, forse lo sono anch’io vecchio e noioso, ma faccio di tutto per dissimularlo).

Quindi, visto che forse lo sono davvero, lasciatemi fare una riflessione da vecchio e noioso. Giusto per vedere se qualcun altro (magari invece giovane e rampante) la pensa più o meno allo stesso modo.

Vi faccio alcuni esempi, tanto per inquadrare il problema. Che di per sé potrebbe anche non essere un problema…L’asteroide (o gli asteroidi) che ha colpito la Terra 65 milioni di anni fa, è stato un “problema” per i dinosauri, ma non per i piccoli mammiferi o per i pesci. Quindi forse è semplicemente così che devono andare le cose.

Primo esempio: vai dal tuo medico, quello generico, quello che appunto “una volta” ti visitava (un minimo), magari veniva pure a casa, ti diceva cosa avevi e ti prescriveva una cura. Stessa scena oggi:…Tu gli/le telefoni (solo in determinati orari: tipo la mattina dalle 8.00 alle 8.15 se trovi libero), spieghi, prenoti la visita (se lui/lei ritiene sia abbastanza grave), ti presenti (solo in poche e selezionate fasce orarie), gli/le spieghi, anzi gli/le rispieghi (dalla sedia, perché figurati se ti visita), e alla fine, scocciato, la fatidica domanda: quindi, secondo lei, che cos’è? (ma del medico però!).

Oppure vai in banca: i pochi esemplari esposti sono male illuminati e fruibili da lontano, in silenzio. Igrometri, telecamere, un guardiano seduto, magari da remoto, niente foto. Regna la penombra e il fruscio, sembra di entrare in un museo italiano. La maggior parte del lavoro te lo sei già fatto tu da casa, on line: saldi, bonifici, investimenti,…Tutte cose che una volta (appunto) facevano loro e che invece adesso fai tu e paghi pure per avere il privilegio di fartele. Anche in questo caso, se vuoi parlare con una persona in carne e ossa (e non con un tutor virtuale), devi prendere un appuntamento. Guai presentarsi così, all’improvviso, potrebbero pensare a una rapina. E saresti l’unico perché pure i ladri hanno rinunciato…

Chiami l’elettricista perché il forno elettrico va in corto. Al telefono ti chiede: modello, numero di matricola, potenza erogata, anno d’installazione, dimensioni, scheda tecnica (se disponibile), descrizione dettagliata dell’incidente che ha provocato il guasto…praticamente un’anamnesi completa dell’apparecchio; dopo la quale può decidere a sua discrezione se gli conviene uscire (sempre su appuntamento), oppure se te lo devi riparare da solo; che a quel punto lo puoi anche fare, perché ormai ne sai più tu di lui.

Altro esempio: vai in officina (previo appuntamento con settimane d’anticipo in cui avevi spiegato al telefono cosa aveva l’auto, sempre che tu non debba anche compilare qualche modulo on-line), gliela porti e il meccanico, guardandoti come se gli stessi rompendo le palle, ti chiede serafico: allora, qual è il problema? Così tu glielo rispieghi, lui dice che ha capito tutto e quando vai a ritirare la macchina, il problema c’è ancora (ma te ne accorgi solo quando esci dall’officina) perché – ti spiega poi lui – il pezzo che ci vuole l’ha ordinato e dovrà arrivare.

Potrei andare avanti ancora, ma preferisco arrivare rapidamente a un punto che mi sembra più interessante.

Anzi no, un ultimo caso prima di concludere. Mettiamoci dentro anche il modello Ikea, quello con cui il signor Kamprad è diventato miliardario facendo costruire i mobili ai suoi clienti. Fighissimo, eh, forse era necessario; dopo il motto: “una casa per tutti”, è arrivato lui con “una casa per tutti decentemente arredata”. Però poi, alla fine, quando uno s’è riempito mezza casa di robe Ikea e si guarda intorno soddisfatto, capisce anche che insieme alla soddisfazione per essersi fatto la maggior parte del lavoro da solo, arriva la consapevolezza che “una volta” chi ti faceva il mobile veniva anche a montartelo per assicurarsi che il frutto del suo lavoro rappresentasse al meglio chi era e cosa aveva fatto.

Cioè, intendiamoci, va bene anche così. Dopo una giornata intera passata davanti al PC, muovendo a mala pena la mano del mouse, un po’ d’esercizio fisico non può che far bene. Se non si va in palestra, anche una libreria “Billy” può servire allo scopo. E infatti non ce l’ho con il signor Kamprad. Ce l’ho con tutti quelli che quando vai a chiedere un servizio (o prestazione, che dir si voglia), per i quali sarebbero anche pagati, ti trattano come se puzzassi di carne avariata. Non tutti, eh, intendiamoci. Non si può mai dire “tutti”. L’eccezione che conferma la regola c’è quasi sempre. Però credo che si possa tranquillamente parlare di “andazzo”. Ovvero di un progressivo e neanche tanto lento depauperamento della capacità di attenzione al proprio lavoro. Dell’assottigliamento delle competenze e della mancanza di cura e precisione nelle cose che si fanno (soprattutto per denaro, che se ci pensiamo è assurdo). Sia in chi una prestazione la dovrebbe dare, sia anche in chi, probabilmente più per rassegnazione che per altro, quella prestazione la riceve.

Adesso, non dico che il cliente ha sempre ragione, perché non è vero. Cioè è vero, ma con riserva. Il cliente gentile ha sempre ragione, il cafone fai di tutto per levartelo dalle palle, sempre che tu non abbia assolutamente bisogno anche di lui, nel qual caso te lo tieni stretto e ti turi il naso. Ora, siccome non credo di essere un cafone, o che la gente non abbia bisogno di tutti i clienti che può avere, sorgerebbe spontanea una domanda. Per forza sorge. E magari anche più d’una, tipo: ma quali le cause, perché, per come, da quando, la società, gli individui, la famiglia, il consumismo sfrenato e rottamatore…E fermiamoci qua, che già ci sarebbe di che riempire pagine di inserti culturali o ore di salotti televisivi. Quindi tagliamo la testa al toro e andiamo oltre; saltiamo un passaggio. Supponiamo che il meteorite sia già caduto e che sia giusto così. Per tremila motivi. Alcuni dei quali magari neanche li conosciamo. Supponiamo che stiamo veramente assistendo al tramonto delle professionalità (o perlomeno alla morte di molti lavori e alla nascita di nuovi), e che presto o tardi saremo destinati a farci tutto da soli, on line: curarci da soli, aggiustarci le cose da soli, magari stampandoci i pezzi in 3D, progettarci le cose da soli, prenotare tutto da soli, gestirci i soldi da soli, noleggiare tutto e non possedere niente,…

A quel punto, credo, gli scenari possibili saranno solo due. O sarà una figata pazzesca, perché assisteremo alla nascita di un nuovo “homo respons-habilis” (che non dovrà più lavorare perché sarà troppo impegnato a fare lui tutti i lavori del mondo), oppure sarà il tracollo totale.

Le poche o tante professionalità rimaste saranno stockate dentro potentissimi server che ragionevolmente saranno in mano ai soliti ig-noti. I pochi volenterosi o eletti, si scaricheranno direttamente nella corteccia cerebrale le informazioni di cui avranno bisogno per cambiare un termostato dello scaldabagno o una valvola cardiaca, magari in licenza temporanea, che costa meno. Se per qualche disgraziato motivo (ma neanche troppo) dovessero andare in crash tutti i server del mondo, o avremo memoria delle competenze acquisite nel corso della nostra breve e insignificante vita, scambiandocele magari sui social o col passa parola di condominio; oppure ritorneremo all’età della pietra, cercando di ricordare come si faceva a scheggiare un pezzo di selce con le mani.

 

Come si fa a credere al teatro di questi tempi?

 

Che cos’è il teatro?

Qualcuno dice: il teatro è lo specchio della vita.

Qualcun altro: il teatro è una rappresentazione della realtà.

C’è addirittura chi dice, spingendosi un po’ più in là, che sia l’essenza stessa della vita.

Tre definizioni sicuramente stringate e riduttive, ma da cui emerge abbastanza chiaramente che abbiamo a che fare con qualcosa di estremamente potente e, forse proprio per questo, difficile da afferrare, descrivere, comprendere.

Letteralmente il teatro rimanda a qualcosa che “sto guardando”, a uno spettacolo dal vivo, qualcosa che, riducendolo all’osso, ha bisogno fondamentalmente di una persona che guarda e di un’altra che fa qualcosa. Non solo però. Sarebbe un po’ troppo facile…Perché succeda “qualcosa” che vada al di là del semplice fatto quotidiano, è necessario che quelle due persone (due o più) accettino di credere che quello che sta succedendo non sia strettamente “reale”, ma una sorta di reale di grado superiore, un simbolo collegato al nostro vissuto che ne amplifica enormemente il significato.

Per ottenere questo, è necessario infatti uno sforzo personale di abbandono, che faccia cadere temporaneamente le resistenze sia nei confronti di ciò che sta accadendo sulla scena, sia di ciò che è accaduto e che sta per accadere dentro di noi.

Coleridge la definiva “sospensione dell’incredulità”, ovvero la sospensione temporanea della capacità critica dello spettatore, al fine di entrare in relazione (credere) con l’opera di fantasia. Se non credi, non riesci a immedesimarti e a provare ciò che i personaggi provano e ciò che gli attori stanno cercando di esprimere. Una volta che “credi”, entri a far parte anche tu di quella dimensione che include contemporaneamente sia il reale che il fantastico, in un continuum dal quale è possibile entrare e uscire a piacimento.

Ciò che accade durante uno spettacolo teatrale, accade in quel momento, in quel luogo e in quel tempo, quindi è unico e irripetibile; proprio come dovrebbe esserlo ogni istante della nostra vita. Ma c’è di più. Il patto che si stabilisce tra attori e spettatori crea uno scambio, una specie di collegamento tra un lì e un altrove che attinge a tutto il mio bagaglio di vita passata, presente e futura; che io sia interprete o spettatore.

Gli attori, da parte loro, prendono il testo, le parole dell’autore, e gli danno vita in una sorta di rito liturgico a cui tutti partecipano e a cui tutti accettano di credere; loro per primi. Proprio loro infatti sono portatori della prima grossa contraddizione, essendo al tempo stesso immersi nel reale e nella dimensione fantastica del personaggio a cui stanno dando corpo. Sono contemporaneamente presenti e non-presenti a se stessi, come potrebbe esserlo uno sciamano o un monaco in meditazione.

Da un certo punto di vista, la parola che si fa carne e diventa vita (per me, per te, per tutti) rimanda ovviamente all’ambito religioso cristiano, in cui gli attori non sono altro che i sacerdoti che officiano il rito, permettendo il collegamento tra il mondo reale e quello fantastico, onirico, “divino”.

Tutto sommato, niente di nuovo, se paragonato ai riti più ancestrali della storia dell’uomo da quando è sceso dagli alberi fino ad oggi.

L’arma segreta del teatro, se così possiamo dire, è che, a differenza di un romanzo o di una poesia, in cui comunque la parola ha un ruolo centrale e in cui forse lo sforzo “immaginifico” è perfino superiore, entra prepotentemente nel mondo fisico reale nel momento stesso in cui l’attore dà vita al personaggio sulla scena. È l’attore che permette il collegamento tra i due mondi, quello reale e quello fantastico. Ed è proprio la risonanza tra questi due mondi, l’entrare e uscire dal reale al fantastico, ad amplificare l’effetto di immedesimazione, aprendo il collegamento con il reale di grado superiore, un reale che comunque attinge e si innesta sull’esperienza personale di tutti coloro che partecipano allo spettacolo, attori e spettatori. La scena di due amanti che si baciano sulla scena ci riporta a quella volta con il nostro primo amore nella cabina sulla spiaggia.

Se affrontato razionalmente, tutto questo sfocia ovviamente in una sorta di corto circuito mentale che mette a dura prova le nostre capacità di interpretazione. Verrebbe infatti da chiedersi: dove mi trovo in questo momento? È finzione o realtà? Quale faccia della medaglia sto guardando?

E questo probabilmente è dovuto al fatto che quando dobbiamo attingere alla nostra parte inconscia e al nostro vissuto, l’effetto di fastidio e disorientamento che ne deriva, tende a farci fuggire verso la nostra parte razionale che ci riporta immediatamente coi piedi per terra.

Il problema è che anche la ragione non sempre è in grado di darci tutte le risposte. E sulla base di cosa poi? Dei nostri sensi? Della nostra capacità logica? Delle parole che sto ascoltando?

Perfino il nostro linguaggio, se ci pensiamo bene, è fonte di ambiguità. Pensiamo a una frase come: “Questa frase è falsa”. Che cosa possiamo dire? E’ vera? E’ falsa? E’ entrambe le cose? I paradossi, di cui questa frase è forse l’esempio più semplice, esprimono bene il concetto di ambiguità che sta alla base di una condizione (o un’affermazione) di cui non sappiamo dire esattamente se sia vera o falsa. Questo perché anche il nostro linguaggio è limitato, specialmente quando tenta di descrivere se stesso o, come si dice, di autoreferenziarsi.

D’altra parte, succede anche il contrario: si possono anche costruire numerose frasi che non significano assolutamente nulla, ma che hanno un valore di verità ben definito (tautologie): “Questo foglio è bianco perché bianco”.

L’uomo, appunto perché non è Dio, non è in grado di produrre modelli “perfetti”.

Quando diciamo di indagare la “realtà”, in effetti stiamo investigando soltanto le proprietà dei “modelli” che abbiamo costruito per descrivere la realtà. E questo non soltanto in ambito linguistico o scientifico, ma anche filosofico, teologico, etico,…

Un altro esempio di corto circuito, forse il primo con cui l’uomo ha dovuto fare i conti, è legato al mondo onirico. Come facciamo a essere sicuri, quando sogniamo, che quello che ci sta succedendo non sia reale? O che ciò che viviamo nel mondo reale non sia in realtà un sogno? Pensiamo alle opere di Shakespeare, o film come Matrix, Truman Show…

Quindi, tutti noi, quando “viviamo”, non sperimentiamo la vera essenza delle cose, ma il loro modello di riferimento mediato attraverso i sensi, ed è per questo che la nostra mente fatica a distinguere tra sogno e realtà, perché effettivamente, ciò con cui abbiamo a che fare, tutti i giorni, è la percezione di un qualcosa in cui siamo immersi e di cui facciamo parte (la realtà), ma che comunque sta fuori di noi.

A questo punto la domanda che verrebbe da porci è: E’ possibile sapere sempre, a partire dalle condizioni in cui ci troviamo, se ciò che stiamo sperimentando è vero o falso? Ovvero in linea con ciò che stiamo percependo.

In altri termini: c’è un modo per accorgerci della differenza? Di qualcosa che non va? Di capire che cosa genera le ombre che vediamo sulla parete di fondo della caverna del mito di Platone.

Tutto lascia supporre che non ci sia.

Abbiamo già visto, per esempio in ambito linguistico (paradossi), che ciò non è possibile, non sempre per lo meno. E per quanto riguarda i sogni, spesso si confondono con la realtà e ci spingono a dubitare di noi stessi.

Un grande logico-matematico austriaco di nome Kurt Godel, nel 1931, è stato in grado addirittura di dimostrarlo matematicamente. Egli cioè, nel suo teorema di incompletezza, ha dimostrato che all’interno di un sistema formale (coerente), non è possibile dire di tutte le proposizioni derivanti dagli assiomi, se siano vere o false. C’è n’è almeno una di cui non possiamo dirlo con sicurezza. Ovvero, in alcuni particolari modelli costruiti dall’uomo per descrivere la realtà, c’è la chiave per dimostrare che non tutte le verità presenti in natura sono conoscibili mediante un percorso razionale che ci arriva. E, d’altra parte, utilizzando tutti gli strumenti che abbiamo messo sul tavolo per costruire questo modelli, potremmo arrivare ad affermare qualcosa e il suo contrario, senza sapere se abbiamo sbagliato qualcosa nel procedimento utilizzato oppure se è così perchè è così.

Quindi, perfino la matematica ci autorizza ad avere dei dubbi. O meglio, ci solleva proprio dal dubbio, affermando che è insita nelle proprietà stesse dei sistemi formali, l’incapacità di poter decidere sempre dove ci troviamo. È come se tutti i tentativi fatti dall’uomo di creare “modelli” per descrivere la realtà cadano miseramente in contraddizione nel momento in cui tentano di descrivere se stessi, ovvero di trovare una dimostrazione che li auto-sostenga, costituendosi come realtà alternative (sostituendosi) a quella reale a tutti gli effetti.

Se consideriamo il teatro come un modello che “simula” la realtà, quindi un modello reale che tenta di descrivere la realtà, non possiamo pensare di poterne venire a capo con la ragione, ma ci dobbiamo “credere”, mettendoci qualcosa che va al di là della semplice valutazione razionale basata sulle percezioni che arrivano dai sensi. Ed è appunto questo sforzo, questo mutuo scambio, questo entrare e uscire, che mi consente di riferirlo ad una realtà che non è (solo) quella cui sto assistendo in quel momento.

Un altro esempio interessante ci viene dal racconto “Flatland”, dove un essere a due dimensioni percepirebbe una sfera che attraversasse il suo mondo come un cerchio che taglia il piano bidimensionale cui appartiene. Ci vuole un certo sforzo per immaginare tutta la sfera (ancora il mito della caverna!). Bisogna crederci. E più lo sforzo è grande, più l’effetto di immedesimazione sarà efficace. Il problema è che, in alcuni casi, non sapremo mai se quella che stiamo osservando è una sfera che taglia il piano o solo un cerchio che abbiamo incontrato sul nostro cammino.

Il teatro, a differenza di altri tentativi di descrivere e racconatre la realtà (film, video, gli stessi libri), è uno degli strumenti più potenti che abbiamo. Esso infatti usa lo stesso linguaggio (genericamente inteso) della realtà: dialoghi, rumori, corpi, sguardi, emozioni, odori…., e lo sentiamo molto affine e complice nello sforzo che dobbiamo compiere, trasportandoci direttamente nel nostro mondo inconscio e irrazionale.

Ovviamente, come tutte le “rappresentazioni” o le liturgie, si avvale di convenzioni, codici, formule, strutture, che ci aiutano e ci proteggono, che ci guidano nel viaggio che stiamo intraprendendo verso l’ignoto, proprio come un rito, o come un gioco.

Non esistono infatti giochi senza regole. Se non ci sono regole e se non le accetto, non partecipo e non mi diverto. Quanto più credo al gioco che sto facendo, tanto più mi diverto e ho voglia di vincere il premio.

Oggi, le moderne macchine di simulazione della realtà hanno fatto passi da gigante nel tentativo di ingannare i nostri sensi, facendoci credere che stiamo vivendo un’esperienza più vera del vero. In un futuro vicinissimo, saranno perfino in grado di farci vivere esperienze virtuali di gruppo talmente reali che crederemo di essere in un certo posto, tutti insieme, a fare una certa cosa, o perfino ad assistere a uno stesso spettacolo, senza che ci rendiamo conto che ciò che accade sta accadendo veramente o se sia il parto di una macchina. A quel punto, per molti di noi, potrebbe anche non essere così importante cogliere la differenza, lo sforzo che dovremmo compiere per “immaginare” altro portebbe non valere la candela. Tuttavia, per quanto sofisticata e complessa, questa macchina, sarà pur sempre un modello creato dall’uomo, e quindi prevedibile, autoreferenziale, e come tale, incompleto.

Nessun sistema di simulazione creato dall’uomo, per quanto avanzato, potrà mai sostituire lo sforzo fisico, mentale ed emotivo che dobbiamo compiere quando accettiamo di prendere parte al duello di Amleto o all’ultima battaglia di Riccardo III.

Questo perché il teatro non vuole simulare la realtà ma, grazie alla sua doppia natura di realtà e finzione, contiene ancora un certo grado di imprevedibilità capace di far accadere ogni volta qualcosa di nuovo e personale, in quel momento, in quel luogo, frutto della fatica delle persone che vi partecipano e che vogliono godere insieme del premio finale.

 

Percezione Maggiormente Ricorrente

Gli idealisti ci insegnano che la cosa in sé non esiste. Kant a suo modo e a suo tempo aveva minato fin nelle fondamenta la metafisica; Nietzsche l’ha uccisa del tutto. Eppure l’ordine che mettiamo nelle percezioni che abbiamo del mondo (dentro e fuori di noi) in forma di leggi, teorie, visioni del mondo, semplici preconcetti, deve ancor oggi (e suppongo per molto tempo ancora) fare i conti e ritornare docilmente a un “altro da sé”, senza timori o supponenza, anche solo per verificare se quello che abbiamo formalizzato ha un minimo riscontro con la realtà. È fin troppo rassicurante, pre-adolescenziale, pensare che la causa e il fine ultimo di ogni cosa stia solo dentro di noi o, ancor più ingenuamente, dentro il nostro pensiero. La maturità dell’uomo e della donna dovrebbe coincidere appunto con quest’ammissione d’impotenza, questo lasciarsi meravigliare sempre, almeno fino a quando non subentra l’ansia da prestazione o la rinuncia totale a capirci qualcosa. In questo continuo riflettersi tra visione e realtà (come due specchi che si riflettono l’uno dentro l’altro) l’uomo si pone antropocentricamente nel centro, appunto: copula mundi.

Nel caso particolare, potremmo pensare di raccogliere le percezioni di ognuno di noi in una sorta di matrice comune, derivante a sua volta da un comune modo di intendere e di ritornare alla realtà. Se per esempio limitiamo il campo a un solo individuo, una sola percezione per volta e al tempo (in cui siamo comunque immersi come pesci nel mare), potremmo tentare di definire una singola cellula di percezione come una matrice tridimensionale un po’ “flessibile”, avendo appunto individuo, percezione e tempo nelle tre dimensioni. Allargando poi lo sguardo all’intera umanità e alla molteplicità delle percezioni, si potrebbe allora parlare di matrice n-dimesionale che dovrebbe appunto aiutarci a stabilire un qualche tipo di contatto o relazione con ciò che più si avvicina alla cosa in sé senza esserlo (sia essa un oggetto, un fatto, un fenomeno scientifico, un generico accadimento del mondo).

Tale matrice sarebbe d’aiuto nel cercare di definire l’“essenza” della cosa, riconducendola a un concetto più probabilistico, a un’intersezione insiemistica di tutte le percezioni che ognuno di noi ha di quella cosa. L’intersezione di tali insiemi non vuoti racchiudenti la medesima “cosa” potrebbe allora immaginarsi come una porzione di spazio che potrà avere un’estensione variabile a seconda delle differenze di valutazione (o ancora percezione) da parte di tutte le persone del globo. E’ chiaro che se restringessimo il campo all’ambito scientifico e sostituissimo le percezioni con le osservazioni, queste differenze (o scostamenti) sull’essenza di ogni singola “cosa”, dovrebbero potersi ridurre quasi a zero. Badate bene, non sto cercando di riportare in vita la metafisica (ho esordito facendo ben intendere che probabilmente non ne è rimasta che polvere da Aristotele in poi). Quando parlo di essenza della cosa in ambito scientifico è chiaro che mi riferisco alla verificabilità (quindi falsificabilità) incontrovertibile di ogni singolo fenomeno scientifico che l’uomo mette sotto la lente del suo potentissimo microscopio razionale.

Per tutto il resto, potremmo pensare di rappresentare questa “percezione maggiormente ricorrente” PMR (o “Opinione Maggiormente Ricorrente” – OMR nel caso si tratti di informazioni che viaggiano per lo più in rete ormai), come una Gaussiana, ovvero la curva a campana che descrive la probabilità che un certo evento si verifichi. L’evento che ha la probabilità più alta di accadere è localizzato nel picco centrale della Gaussiana, e quanto più questo è alto e stretto, tanto più gente mette d’accordo. L’”essenza” probabilistica altro non è che la percezione (opinione) più ricorrente che ne hanno gli uomini, o le donne, o chiunque altro essere vivente dotato di un po’ di autocoscienza.

Ora, è chiaro che parlare di percezione, opinione e informazioni come fossero totalmente intercambiabili è una forzatura piuttosto grossolana; ovviamente si riferiscono a modi diversi in cui gli esseri umani acquisiscono o valutano “stimoli” esterni, ma cercate di fare uno sforzo, o un doppio salto mortale se preferite, e seguitemi fino alla fine del discorso. Quindi, dicevamo, questa percezione maggiormente ricorrente (PMR) non può che essere a sua volta influenzata dalla variabile tempo, visto che mutano appunto nel tempo sia le percezioni che le coscienze degli uomini. Se inoltre consideriamo l’utilizzo che oggi si fa delle informazioni (intese come pacchetti di dati che dobbiamo digerire al secondo), più che delle percezioni (intese come ciò che va a “stimolare” direttamente i nostri sensi, che interessava più i filosofi classici e moderni ma che forse non sarebbe male andare un po’ a riscoprire anche ai giorni nostri), nel farsi un’opinione della realtà, sia essa dentro o fuori di noi, sia essa virtuale o “tutto ciò che non è virtuale”, si capisce bene l’importanza di chiarire l’evoluzione che queste (le informazioni) hanno avuto nel corso del tempo.

Quanto più le nostre opinioni si basano su input derivanti da informazioni mediate, tanto meno saranno affidabili, e quindi fonte di errore e di fraintendimenti. Quanto più la Guassiana è stretta e alta, tanto più precisa sarà la PMR (OMR), e quindi univocamente definita da e per un gran numero di persone l’“essenza” di quella cosa. Quanto più la Gaussiana è larga e dispersa intorno alla media, tanto più vaga sarà la PMR, col risultato di avere più possibilità d’interpretazione per quello stesso fatto o fenomeno. Ciò cui assistiamo oggi, con la globalizzazione della cultura, è il restringimento delle gaussiane: ogni fatto, ogni bit d’informazione è ugualmente e immediatamente percepito-recepito da ogni essere umano del globo come “verità assoluta”. E non c’è apparentemente alcun modo di pensare (supporre, dubitare, intuire) che una cosa possa essere diversa da come ci viene riportata.

L’intersezione di infiniti insiemi si riduce a un punto infinitamente piccolo, che dovrà per forza rappresentare l’unica e sola PMR o OMR universalmente accettata (come vuole la scienza). L’intero globo terrestre si contrae in un unico punto d’accesso, a cui siamo connessi come tanti “clients” ad un unico server centrale. Non è più necessario essere depositari di nulla, tutto quello che ci serve per farci un’idea della realtà si trova da qualche parte stivato in un “server”. È l’orizzonte della memoria. L’oblio verso il quale ognuno di noi è accompagnato dal pilota automatico globale. L’effetto di levigatura e livellamento pone fine alla fatiche di millenni di ricerca metafisica e supporta gli uomini e le donne più indolenti nel definire in un determinato momento, ovvero al bisogno, quale sia la verità su qualsiasi “cosa” ci venga propinata. L’immediatezza e l’estrema facilità di accesso produce il tanto agognato e democratico schiacciamento della distanza tra percezione e realtà, riducendolo a un “epsilon” piccolo a piacere che mette d’accordo un po’ tutti.

 

 

 

 

Tautismo

Qualcuno, non io, ha coniato un neologismo curioso: ‘tautismo’, da una contrazione di autismo e tautologia. L’autismo, nella definizione più semplificata, è la malattia dell’autoaffermazione in cui l’individuo, ma anche le organizzazioni, non provano il bisogno di comunicare o di confrontarsi con gli altri, giacciono in una sorta di autosoddisfazione comunicativa, organica e ludica. Tautologia invece è quella forma retorica in cui soggetto e predicato sono uniti in un unico e identico concetto.

Potremmo quindi definire il tautismo come una sorta di autismo tautologico, un meccanismo che evoca una chiusura totale dell’individuo su se stesso che è insieme sorgente e pozzo di ogni sua tensione e pulsione verso un fuori che ritorna subito dentro. Linee di campo magnetico che ci riparano dalle influenze esterne come le fasce di Van Allen con il vento solare.

Perché?

Probabilmente non esiste una sola risposta. Bisognerebbe forse cercare indizi nella società, nella famiglia, nella scuola, nel mondo del lavoro,…Tutte entità che ci sono sempre state, ma che evidentemente hanno subito e subiranno ancora nei decenni a venire profondi cambiamenti mutando il loro rapporto con l’individuo che le popola e le vive.

Ciò che forse potremmo rilevare più facilmente è il paradosso che si è venuto a creare dopo l’avvento delle tecnologie che ci consentono di essere costantemente e continuamente connessi e collegati alla rete.

Tutto ciò moltiplica enormemente le nostre potenzialità comunicative: maggiore velocità di trasmissione, maggiore varietà di supporti, accesso distribuito, quasi totale uniformità del linguaggio digitale,…Tutto alimenta l’illusione di appartenere a una grande comunità e di sentirci meno soli.

Ciò di cui non sempre ci rendiamo conto è che a questo si accompagna un incessante rumore di fondo, un aumento del volume, una moltiplicazione degli stimoli, una ridondanza di messaggi a scapito della loro profondità.

Quindi, da una parte si va presto verso la saturazione (per forza!): diminuisce la capacità critica, crescono l’incapacità di ascolto e le difficoltà a sviluppare relazioni interpersonali autentiche.

Dall’altra si arriva a pensare che dopo tutto, e forse proprio in coseguenza di questo, del marasma che ci circonda possiamo anche fare a meno, visto che tutto il mondo può stare benissimo nella breve distanza che c’è tra me e il monitor.

Lo scenario che ci si prospetta è quello di finire soli e sordi in un universo di virtualità comunicative.

Ma l’uomo si adatta e si evolve da milioni di anni. Quindi aspettiamo di vedere che faccia avrà l’Homo sapiens post-informaticus….

 

Destinati a vivere

Supponiamo che al momento della nostra nascita ci venga consegnato il libro del nostro destino, talmente minuzioso e particolareggiato da riportare giorno per giorno quello che ci succederà.

Supponiamo ora di tenere un diario della nostra vita in cui, istante per istante, scriviamo quello che ci succede.

Alla fine della nostra vita, che differenza ci sarebbe tra i due volumi?

Al di là del fatto che il primo sarebbe solo un puro parto della nostra fantasia (fino a prova contraria), e l’altro solo uno sforzo immane e maniacale di tenere traccia della nostra esistenza, in linea del tutto teorica non dovrebbe esserci alcuna differenza. E questo forse per qualcuno potrebbe essere perfino rassicurante: se non c’è nient’altro da aggiungere vuol dire che ho fatto tutto quello che dovevo fare, niente di più, niente di meno. Nel bene e nel male.

Il problema è che molto probabilmente la vita non può essere ricondotta a una semplice teoria filosofica. E che ci sarebbe da augurarsi non solo che i due libri non coincidano, ma soprattutto che nessuno dei due libri esista, nemmeno per ipotesi.

Pensiamo se per assurdo passassimo tutto il tempo a scrivere quello che ci succede, minuto dopo minuto, anno dopo anno; non avermmo più tempo per vivere e non avremmo più niente da scrivere.

Tra quello di cui sto scrivendo e quello che mi succederà di lì a poco, non passa che un piccolo spostamento sulla mia geodetica dello spazio-tempo, sufficiente però a far sì che uno sia scritto sul diario e l’altro sull’ipotetico libro del destino.

Il destino deve essere sempre una pagina avanti a noi. E’ possibile che ci sentiremo spaesati, intrappolati tra la pagina che non abbiamo ancora scritto e che abbiamo già vissuto, e quella già scritta ma che non abbiamo ancora vissuto; ma è giusto che sia così. E’ proprio grazie a quella frattura che si può scegliere di vivere la propria vita e non quella scritta da qualcun altro per noi.

L’eterno ritorno

Capannoni, garages, scantinati; enormi vani dietro porte di ferro e vetro che non contengono più nulla. Dall’altra parte del cortile di sanpietrini un’altra porta, sempre in ferro ma più piccola e senza luce: il cesso.

Siepi di bosso rachitiche suddividono come possono il poco spazio disponibile dentro fioriere grandi come vasche da bagno.

All’interno, la carcassa è antica e geometrica: alti pilastri a sezione quadrata, soffitti a botte, a falde inclinate, chiuse su un lato da serrande sporche e sbrecciate in vetro retinato. L’acustica è pessima, ma sinceramente l’acustica, in questi casi, è veramente l’ultima cosa. Invece la luce del sole è sempre stata importante, anche d’inverno, poterne sfruttare fino in fondo anche l’ultima goccia rosata era una sapienza lontana che sapeva anche un po’ di stalla e di fieno ammuffito. Contorni fuligginosi impressi dal tempo raccontano un percorso tecnologico sulle piastrelle rettangolari o sull’intonaco grezzo che una volta doveva essere stato bianco. Scale, porte, ballatoi, tutto di ferro. Il cemento sui pavimenti, a vista o ricoperto di linoleum nero antiscivolo con le bolle, garantisce spostamenti rapidi e carichi sicuri. Tutt’intorno solidi muri destinati per legge “ad usum fabricae”.

Un tempo, uomini e donne erano impegnati a tornire, saldare, calandrare, filare, linotipare, avvitare, incollare, cucire. Gesti meccanicamente ripetuti all’infinito per accompagnare la materia alla forma prestabilita e trasformare maccheroni, minestroni, sformati, e cotolette in fiato, scoregge e sudore. Il processo produttivo che scorre parallelo al processo biologico e lo inghiotte nascondendolo.

Uomini e donne in continuo movimento, osservati, controllati, cronometrati. Proibito pensare. A vederli così, verrebbe da dire brulicanti, frenetici, eccitati, come insetti laboriosi; se non fosse che non sono insetti ma esseri umani, e che per anni hanno contato le lunghe ore del giorno e della notte che li separavano dalla fine. Il suono della sirena. Il cambio turno. Ahhh…lleluia!

Fuori di lì, ad attenderli, l’agognato riposo. Meritato? Di sicuro necessario. Come necessario era il movimento controllato e cronometrato là dentro. Uno necessario al processo biologico, l’altro a quello produttivo. Difficile il viceversa.

Quindi cena, ognuno secondo i propri gusti e le proprie possibilità; e poi a letto. Prima i bambini e poi i grandi. A dormire. O a fare l’amore. In silenzio. Per quanto possibile. Ah..ah…ah…lleluia. Questo prima che entrasse in casa la televisione, perché poi le voci hanno avuto un volto, e passando dalla cucina alla camera da letto ci si sentiva ancora un po’ osservati da quelle facce così famigliari e ben pettinate. Qualcuno nel cambio ci ha guadagnato, per qualcun altro è stata la rovina, sia davanti che dietro lo schermo.

Oggi comunque, non tutto è perduto. Per fortuna si è rinnovato e ricontestualizzato. In altri spazi o negli stessi, nuove opportunità si sono affacciate all’orizzonte del terziario. Viva il progresso che trasforma ancora una volta la materia, elevandola ora da semplice massa grezza e informe al suo nuovo stato di spirito pagano. La sublimazione della materia si stempera in un vapore tiepido e rassicurante, che è un’opera impalpabile e pure assolutamente necessaria. Parola chiave: progresso.

Chi non è al corrente sarà informato. Chi non accetta sarà riprogrammato. Chi non si uniforma verrà accantonato. Alla fine non potrà che convenire o rimanere al palo. Deriso. Isolato. I dinosauri sono stati annientati dalla fragorosa risata di un topo.

Gli stessi uomini e le stesse donne attendono ora pazienti la medesima fine seduti tutto il giorno dietro una scrivania di compensato, specchiandosi in un monitor piatto e opaco che li collega al mondo. O specchiandosi ognuno nella nuca dell’altro, nella sua cervicale, nei suoi pensieri. Proibito sudare. Il climatizzatore è di serie.

Le ore non si contano più. Non c’è bisogno. Giorno e notte si confondono in un’unica luce appiccicosa e bluastra, tremolante ed eterna, quasi rilassante.

Una volta fuori di lì, si rientra, in fretta, negli stessi antichi luoghi per una piccola silenziosa sgroppata che manterrà il motore lubrificato e scattante. Poca cosa, ma necessaria, al solito, al buon funzionamento del sistema e, soprattutto, col sorriso sulle labbra. A parte i consigli del medico, viene comodo anche solo per una doccia a scrocco e per nutrire il proprio ego con i difetti dei propri simili nudi negli spogliatoi piastrellati. Adesso per poter sudare si paga. Scolpire il proprio corpo maneggiando dischi, carrucole e bilancieri che sfidano questi sì la gravità, è un lusso e un piacere che siamo ben lieti di mostrare e di pagare. E di mostrare di pagare. Attenendoci scrupolosamente a percorsi e tabelle. Cronometrati. Senza barare, perché ora è davvero stupido e…contro-producente.

Tutt’intorno gli stessi muri, pavimenti e finestroni, ad ascoltare, osservare, annusare. Gli stessi, uomini, le stesse donne, la stessa puzza.