Paesaggi dell’anima

 


A 25 anni il mondo è pronto per essere addentato come un frutto maturo e succulento. Prendiamo Adamo: quando Eva gli mette sotto il naso una mela dolce e profumata, non può far altro che cedere alla bontà del frutto e alla bellezza della femmina, o viceversa. Biancaneve, ancor più giovane e bella, dopo esser fuggita dal castello per cercare la sua strada, addenta anche lei la sua mela, ma solo per poi cadere addormentata a causa del malefico veleno. Questo a significare che il mondo-mela è certamente dolce e affascinante, ricco di sorprese e di opportunità, ma anche insidioso e costellato di pericoli.

Ci vuole dunque coraggio e accortezza…come se fosse facile, a 25 anni. Oggi come oggi, siamo letteralmente sommersi da un immaginario che può attingere da film, documentari, libri, Wikipedia, Youtube, Youporn, tutto è già lì in bella mostra sugli scaffali pronto per essere acquistato e assaggiato, mangiato, digerito e rispedito nel mondo. Nulla sembra impedirci di afferrare tutto quel ben di Dio e portacelo via. Una volta capito che tutta quella roba non è che un miraggio, un riflesso di ciò che dovrebbe essere, di ciò che realmente val la pena di essere mangiato, è o dovrebbe essere relativamente facile lasciare la nostra personalissima impronta sulla sabbia a imperitura memoria per i posteri. Una spessa colata di fango la ricoprirà per bene e tra 100 milioni di anni sarà ancora lì a stupire i paleontologi di Xilon834/ter, in visita sulla Terra dalla costellazione dell’Aquario.

A 35, se tutto è andato come previsto, qualcosa dunque abbiamo visto e assaggiato. Pensiamo che sì, effettivamente il mondo è piccolo e che in linea di massima abbiamo capito quali sono i meccanismi che lo regolano; se non facciamo troppe cazzate, se non ci perdiamo in qualche isola remota inseguendo una chimera, non ci sono praticamente limiti a quello che possiamo fare. Se abbiamo voglia e buona volontà, possiamo, se non proprio piegarlo al nostro volere, almeno imporgli un nostro personalissimo modo di vedere le cose. Sogni, progetti, buone idee (che a noi sembrano addirittura “rivoluzionarie”) che ci portiamo dietro dalla nascita, aspettano solo di essere messi nel mirino e affondati; realizzarli sarà solo questione di tempo. Magari qualcuno dei nostri simili riuscirà perfino ad accorgersene e verrà pure a dirci bravo, ricoprendoci di soldi, fama, potere.

A 45 anni fai un po’ i conti con l’oste. Guardi il tavolo, chi hai davanti, gli altri commensali e t’accorgi che forse tutto questo potere non è ancora arrivato. E ti chiedi il perchè. Troppo presto, troppo tardi? Troppo grosso il bersaglio? Non si sa. Fatto sta che se non succede nulla di clamoroso, probabilmente il “successo” con la “s” maiuscola (o anche semplicemente minuscola) non arriverà più. (Quelli di voi per cui soldi, fama e potere sono effettivamente arrivati, sono invitati a saltare direttamente all’ultima parte di questo testo). Cominci a valutare l’ipotesi che forse sei stato ingenuo, presuntuoso, idealista, facilone, sfortunato, invidioso, inefficace, o forse semplicemente che non avevi niente di così importante da dire. Pensare di poter capire tutto, di visitare ogni angolo del globo, di poterlo cambiare magari in meglio, di inventare la macchina del tempo, di poter comprendere le esistenze di ogni singolo essere umano come se il codice di Matrix l’avessi scritto tu, era un tantino pretenzioso.

A 55 anni se nessuna singolarità s’è ancora presentata nella tua vita (tipo una vincita al Superenalotto, la scoperta della crema che fa ricrescere i capelli, o il ritrovamento d’una vena diamantifera nel giardino di casa) dovrai cominciare a fare i conti con l’idea che non avrai più la possibilità d’imporre niente a nessuno, non sarai il prossimo Steve Jobs, il futuro Nicola Tesla o un altro John Lennon. Farai fatica a imporre ai tuoi pochi capelli una piega accettabile, al tuo girovita una forma decente, ai tuoi figli un modo rispettoso di valutare il prossimo. Avrai qualche amico su Facebook che non vedi mai, e pochi conoscenti in carne e ossa che faresti volentieri a meno di vedere. La tua sfera d’influenza arriverà a stento al tuo pianerottolo, i tuoi figli ti chiameranno ogni tanto per chiederti dei soldi e tua moglie, se sarà ancora nei paraggi, comincerà a pensare se non è meglio per tutt’e due dormire in camere separate.

A 65 ti si squaglierà il cuore quando la tua nipotina ti sorriderà chiamandoti nonno e a quel punto qualsiasi ricordo o velleità di dominio sui tuoi simili andrà a farsi fottere.

A 75 anni, ammesso d’arrivarci, vedrai il tuo corpo farsi duro e secco come la roccia del deserto. I tuoi sensi (per fortuna) t’abbandoneranno, e lentamente, senza che tu te ne accorga, ti chiuderai in un mondo inodore, insapore e ovattato, lasciandoti libero dalle frustrazioni e dalle passioni che tanto t’hanno fatto dannare durante la tua insipida, normalissima vita.

E questo è quanto.

Troppo pessimista? Semplicistico? Non credo. O forse un po’, ma non importa. Ognuno di noi, onestamente, può fare due conti e ritrovarcisi, oppure no. In parte o in toto. A budget o a consuntivo. Non importa. E’ solo un certo modo di vedere le cose. Ognuno è libero di pensarla come vuole e soprattutto di credere a quello che gli pare. In ogni caso, credo, non ci sarebbe nulla di male nel ritrovarsi a soppesare la propria vita come quella d’un uomo qualunque a cavallo tra XX e XXI secolo. Forse la forza sta proprio nel riconoscersi mantenendo una propria identità all’interno del gruppo; ma chissà, potrei sbagliare…

Mi si dirà: impossibile categorizzare, l’uomo qualunque non esiste. Benissimo, allora diciamo che, in ogni caso, se un uomo del genere dovesse esistere, a me sarebbe quasi simpatico. Per tutti gli altri c’è ben altro….Vediamo.

Ogni vita, nel bene e nel male, nella salute e nella malattia, è una singolarità. Giusto!

Ogni essere umano è speciale, giusto! ma è anche piccolo e cattivo; capace di donare e donarsi, di piccoli sacrifici e di grandi slanci: da una piccola offerta al poveraccio in metropolitana fino al sacrificio della propria vita per un suo simile, famigliare o sconosciuto, nel breve spazio d’un minuto o nell’arco d’una vita intera.

Posto che il paradiso in Terra non esista, quest’(altro) uomo fuori dagli schemi e a-normale si trova dunque a dover fare i conti tutti i giorni con le sue miserie e con le sue piccole soddisfazioni, a doversi riconoscere un minuto prima in Dio e quello dopo in Satana, a ritrovare dentro di sè tracce di polvere (di stelle) e (per chi ci crede) immortali, ma anche di polvere e basta, della più sporca e unticcia, tipo quella che scende dalla cappa della cucina quando bolle l’acqua per la pasta.

Tempo fa guardavo un documentario sulle vittime del genocidio in Cambogia ad opera di Pol Pot. Qualcuno asseriva che dopo anni da quei fatti orribili è più facile ottenere aiuti per lo Tsunami che per le vittime del genocidio. Questo perché lo Tsunami è una catastrofe naturale, quindi ineluttabile, quindi scevra da qualsiasi questione morale. Il genocidio invece è come se ci riguardasse, come se ci facesse sentire in colpa per quello che è successo, e di qui la difficoltà a prendere posizione. Di fronte al male si rimane interdetti, come se si faticasse a riconoscerlo e a chiamarlo per nome.

Hannah Arendt, dopo il processo Eichmann, ha parlato di “banalità del male”, per sottolineare appunto che quell’uomo così insignificante e quasi banale era stato capace di azioni orribili senza che nessuno potesse farci niente. Titolo senz’altro azzeccato, ma probabilmente un po’ fuorviante. Forse c’è davvero della banalità in un uomo che si è reso strumento di un tale malefico progetto spacciandosi per un semplice burocrate che faceva il proprio dovere. In realtà un male così fatto non è mai banale, piuttosto siamo noi (altri) esseri umani che tendiamo a spersonalizzarlo, come se fosse un concetto assoluto, inaccettabile, slegato dagli individui che lo compiono, e proprio per questo più difficile da stanare; richiede quindi fermezza e coraggio per essere riconosciuto e additato per quello che è. Ovviamente non è facile individuare e punire le responsabilità dei singoli; giudicare ed essere giudicati è forse l’atto più difficile che un uomo è chiamato a compiere nei confronti dei propri simili; nondimeno non si può sfuggire al proprio dovere. Se non per la legge, almeno per le vittime che sono state annientate e degradate da altri uomini a livello di animali, obbligate a dover combattere ogni giorno coi propri simili per un chicco di riso.

Basta leggere “Se questo è un uomo” di Primo Levi per rendersi conto di quanto disumanizzante fosse la “vita” in un campo e allo stesso tempo quanto poco spazio ci fosse in quell’orrore, per un giudizio verso i carnefici. C’era solo l’istinto, quotidiano e inconsapevole, a sopravvivere.

Alle vittime, ai sopravvissuti, rimane per sempre appiccicato un sottile senso di colpa, come una bava mefitica, come se in fondo avessero sentito di meritare quello che stava loro accadendo, rintanandosi nell’inevitabilità della loro condizione, condannati a preferire una morte rapida e immediata alla sofferenza di una vita che non aveva più alcun senso.

Per fortuna, l’umanità, insieme ai vari Hitler, Pol Pot, Stalin, è riuscita a produrre anche individui come Gandhi, Mandela, Gesù. Ma non so se questo sia sufficiente a salvarci tutti.

Così come tendiamo a spersonalizzare il male, analogamente tendiamo a spettacolarizzare il bene, slegandolo dall’uomo. Basta vedere com’è facile chiamare eroe un vigile che fa il proprio dovere, o un bagnino, o l’autista di un autobus.

“Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”, diceva Brecht.

E nemmeno quando siamo chiamati a riconoscere i piccoli gesti, nel bene e nel male, ce la caviamo tanto meglio. Le piccole gentilezze, le carezze, uno parola rassicurante, uno sguardo amico, svaniscono come pioggia nel deserto insieme ai piccoli imbrogli, alle bassezze, al superare la fila di macchine per infilarsi all’ultimo. Si fa finta di niente. Un sopracciglio alzato, mezzo sorriso. Poco di più.

Sembriamo essere incapaci di avvicinarci gli uni agli altri, sempre in fuga dall’uomo, altrove. Come se non riuscissimo a stargli accanto, a guardarlo negli occhi. Come se ne temessimo la presenza.

Perché è così difficile stare vicino a un uomo e guardarlo negli occhi?

Forse perché abbiamo paura di quello che potremmo vederci riflesso. Ma è solo la prima risposta che m’è venuta in mente. Forse altre se n’è date Marina Abramovic durante la sua performance al Moma del 2010 “The artist is Present”. O forse no.

La realtà è che siamo deboli e imperfetti, quasi normali, a sprazzi dotati di slancio.

Siamo necessario e contingente, essere e non-essere. Mischiati insieme. In dosi variabili nel tempo e da individuo a individuo.

Volendo trovare una sorta di compromesso quantistico, potremmo dire che quanto più precisamente riusciamo a definirne uno, tanto più indefinito ci risulta l’altro. E viceversa. Senza possibilità di salvezza.

All’inizio relativizzare è più difficile, a vent’anni tutto è possibile e quasi niente è probabile, il futuro è un insieme infinito di futuri possibili; il contingente è sacrificato a scapito d’una forte visione del mondo.

Alla fine sappiamo che tutto passa, che non siamo altro che polvere di stelle e che quando i nostri occhi si chiuderanno, anche la luce sull’universo si spegnerà per sempre.

Non è nichilismo, è coraggioso realismo con uno schizzo di speranza sul presente. Il futuro è lontano; troppo per poterne sopportare il peso.

 

 

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