Una porta che sbatte sul pianerottolo.
È così che ricomincia.
Il motore dell’ascensore accende il fruscio del suo corpo caldo sotto il piumino leggero.
Fingo di dormire, su un fianco, dandole le spalle. Ne percepisco distintamente le diverse posture al buio: distesa, seduta, in fuga.
L’altra, è come un rubinetto aperto sopra una vasca piena di scuse. Invece è il suo liquido caldo nel sifone del water.
Un fremito tra le gambe. Ancora, nonostante tutto, per lei.
La cascata sul piatto doccia. Il suo profilo impacciato la prima volta che la vidi nuda, pallida ombra tra le lenzuola cobalto del letto di casa sua. La casa che condivide con lui.
Il tintinnio d’un cucchiaino distante girato controvoglia.
Una bottiglia di plastica troppo sottile che cede rassegnata sotto le sue dita forti e sottili.
La sento fare piano quando apre e chiude la porta. Non ha le chiavi; non le ha mai volute.
Ho sognato una sposa su un Maggiolone decappottabile che mi sorrideva di rimando un po’ imbarazzata. I fiori del bouquet uno squarcio nel ventre.
A seguire, gli occhi tristi d’una bimba appoggiati al finestrino posteriore d’una grossa Porsche color canna di fucile.
Mi rigiro nel letto. Supino. Le mani sotto lo sterno, a guardia dello stomaco; che grida.
Mi sforzo di non pensare.
Ancora il motore dell’ascensore. Il condominio si svuota. Li vedo uscire, uno dopo l’altro, rincorrendo giovani sogni di carta velina che avvolgono blocchi di calcaree delusioni.
Io non mi muovo, aspetto che non succeda più nulla.
So che da lì in poi dovrò ricominciare, affidandomi a una corda troppo sottile in mezzo alla tormenta.
Questo è quello che ci siamo detti dopo aver fatto l’amore, un’altra volta.
Mi attenderà altrove, come l’occhio d’un pesce rosso che scompare nello scarico del water.