Categoria: Stringhe

Canto per lo straniero

 

Addio, mio gentile straniero.

Va’ ovunque il coraggio ti conduca e piangi lacrime silenziose

Lordati del fango di questa nostra terra stanca e malata.

Gioca coi nostri figli e ascolta le parole dei vecchi seduti in strada,

vicino alla porta della loro povera casa.

Respira il freddo del vento spietato che scende dagli Urali

Assapora il gusto metallico di parole non tue.

Dì al tuo cuore di farsi grande abbastanza per accogliere gli sguardi che incontrerai, senza vergogna; aggirandoti come un animale affamato tra i ruderi del loro sogni, raccogliendone i gioielli sulla coda del pavone.

Non infierire sui tuoi occhi che vorranno chiudersi di fronte a quello che vedranno

Concedi alle tue orecchie di ascoltare parole che non vogliono essere dette, gocce di sangue rubate dallo scarico di un lavandino.

E poi torna

Ritorna alla tua casa e dimentica tutto.

Dimentica me, la mia terra e quello che hai visto.

Lascia che il destino di questa terra maledetta si compia fino in fondo

Che l’odio e la rabbia consumino le coscienze degli uomini finché non ci siano più uomini per odiare, né coscienze per soffrire.

Solo fa’ che quello che hai visto non accada ai tuoi figli, ai loro amici e ai nemici dei loro amici.

Spegni la luce calda suoi loro sonni di bambini felici

Perché non abbiano mai un giorno a desiderare che il sonno si tramuti in sogno e poi morte.

Addio mio gentile straniero

Addio

Non dirò nulla

 

Lascia stare.

Stavo per dire lasciami stare qui. Ho rinunciato. Per me e per te.

Non volevo più scorgere nei tuoi occhi la pena. Sulle mie labbra la preghiera.

Solo gli dei si fanno pregare.

Schegge d’amori sgretolati dal tempo, dalla tempesta, dall’incuria.

Un vento gelido d’autunno le raccoglie come foglie secche agli angoli del mio cuore.

Al centro, il lago salato di tutte le lacrime che ho versato.

Qui, sarebbe stato dove sei tu.

Ora è nient’altro che il momento in cui ho cessato di implorarti.

Riguadagnato e sofferto, strappato senza un gemito dalle mie carni, a te.

Le nuvole sono tornate ad occupare la stessa identica posizione di quel giorno in cui per la prima volta alzai gli occhi al cielo. Le osservo. E non mi muovo più. Non mi muovo e mi lascio portare. Come da prima che arrivassi tu.

Che importa chi parla? Qualcuno ha detto lascia stare. A chi importa chi parla? È solo una voce che non è più qui e non vuoi ascoltare. Qualcun altro, forse, domani, proverà a raccontare una storia. Non sarò io. Io non dirò nulla.

Dolce rassegnato prevedibile domani che tuttavia non appaghi i miei sogni di ragazzo.

Un suono in lontananza aumenta d’intensità. A intervalli regolari.

Si direbbe il respiro affannoso di un animale ferito, ma la direzione non è chiara. Non è chiaro neanche se ci sia una direzione: da o verso questo punto che è una buca melmosa dove non sei tu.

In attesa che il cielo schiarisca di nuovo. Che quel suono mi travolga, o mi eviti all’improvviso, con uno scarto che non ho chiesto.

I binari contorti paiono radici rinsecchite portate dal mare sulla spiaggia.

Il soffio del vento li ricopre lentamente con manciate di sabbia caustica.

Qualcuno allora forse proverà a costruire una storia sulla sabbia. Non sarò io. Io non dirò più nulla.

Tutto invece è. Stavo per dire Tutto. La tentazione è forte; ma dicendo così è niente.

Tutto. E’. Vuoto. Vago inutile e falso. Tutto è caos, guerra di tutti contro tutti.

Almeno un prima e un dopo sono nulla, sono in nessun posto; un mai accaduto.

Tra l’uno e l’altro, qualunque cosa sia, non sarò io. Io non dirò nulla. Non dirò nemmeno Tutto.

Ascolterò.

Ascolterò soltanto raccontare una storia e guarderò gli altri partire. E se quel suono mi risparmierà, sarò con loro. Sarò qui e là.

Dove andrei se potessi andare?

Chi sarei se potessi essere?

Cosa direi se avessi una voce?

Chi parla così dicendosi me?

Se non qui, se non centro, se non parola, allora forse potrei essere un andare e venire. Movimento. Azione. Per far ripartire il tempo. Ogni cosa tra un prima e un dopo.

Ci vorrebbe di nuovo un corpo. Non dirò più di no, questa volta.

Mi dirò un corpo, questo lo dirò, un corpo che si muove, avanti e indietro, che entra e esce, secondo le necessità e il piacere.

Allora il corpo sarà il centro.

Racconta una storia e chiedimi se sono felice.

Chiedimelo ogni giorno. Ogni minuto di ogni nuovo giorno.

E sorprendimi se puoi, sarà più difficile. Più difficile per loro. Più difficile per loro e per me.

Tienimi sveglio con incubi terribili perché potrebbero entrare e non me ne accorgerei. Potrebbero scivolarmi dentro come tra le cosce di una puttana e lo troverei solo caldo e rassicurante.

Quanto per un’ora d’amore? O per un carato di felicità.

Neanche si dovesse setacciarla, scavarla, separarla a mani nude da migliaia di tonnellate di roccia.

Eppure qualcuno, da qualche parte, a un certo punto, deve avermi promesso qualcosa. In cambio.

Non avrei desistito sennò. Non avrei resistito.

Chissà quale ricca corona per farmi chinare la testa.

No? Forse è solo che non ricordo. Dovrei sforzarmi. Ma come si fa a ricordarsi tutto? In ogni caso Tutto è. Stavo per dire tutto è caos.

Forse qualche siero sconosciuto. Quanta dose di anestetico avranno dovuto usare?

Quale terribile marchingegno hanno dovuto inventare i miei torturatori in guanti di velluto? Nessuno?

Nell’altra stanza voci di uomini. Uno di loro si erge sopra tutti, li incita prima della partenza, gli altri ridono e approvano, eccitati, sguaiati. Siamo i migliori e vinceremo. Chi non è con noi è contro di noi. Il piacere orgiastico della guerra li esalta e li acceca.

Unici custodi delle ultime gocce di umana follia ancora in circolazione.

Detentori autorizzati dei gesti più turpi e degli atti più eroici.

Le voci si allontanano. La direzione non è importante, non in questi casi. Poco a poco le grida si perdono nel vento.

Portano la guerra lontana.

Ritorna la calma e il silenzio.

Ritorna l’oblio. Ogni cosa tra un prima e un dopo.

Se c’è un corpo, questo è il momento.

Non era forse meglio partire con loro per la guerra?

Come l’occhio d’un pesce rosso

 

Una porta che sbatte sul pianerottolo.

È così che ricomincia.

Il motore dell’ascensore accende il fruscio del suo corpo caldo sotto il piumino leggero.

Fingo di dormire, su un fianco, dandole le spalle. Ne percepisco distintamente le diverse posture al buio: distesa, seduta, in fuga.

L’altra, è come un rubinetto aperto sopra una vasca piena di scuse. Invece è il suo liquido caldo nel sifone del water.

Un fremito tra le gambe. Ancora, nonostante tutto, per lei.

La cascata sul piatto doccia. Il suo profilo impacciato la prima volta che la vidi nuda, pallida ombra tra le lenzuola cobalto del letto di casa sua. La casa che condivide con lui.

Il tintinnio d’un cucchiaino distante girato controvoglia.

Una bottiglia di plastica troppo sottile che cede rassegnata sotto le sue dita forti e sottili.

La sento fare piano quando apre e chiude la porta. Non ha le chiavi; non le ha mai volute.

Ho sognato una sposa su un Maggiolone decappottabile che mi sorrideva di rimando un po’ imbarazzata. I fiori del bouquet uno squarcio nel ventre.

A seguire, gli occhi tristi d’una bimba appoggiati al finestrino posteriore d’una grossa Porsche color canna di fucile.

Mi rigiro nel letto. Supino. Le mani sotto lo sterno, a guardia dello stomaco; che grida.

Mi sforzo di non pensare.

Ancora il motore dell’ascensore. Il condominio si svuota. Li vedo uscire, uno dopo l’altro, rincorrendo giovani sogni di carta velina che avvolgono blocchi di calcaree delusioni.

Io non mi muovo, aspetto che non succeda più nulla.

So che da lì in poi dovrò ricominciare, affidandomi a una corda troppo sottile in mezzo alla tormenta.

Questo è quello che ci siamo detti dopo aver fatto l’amore, un’altra volta.

Mi attenderà altrove, come l’occhio d’un pesce rosso che scompare nello scarico del water.

In bilico sul tempo

 

Il sibilo dell’indifferenza

si spegne nel vortice singolare del tempo.

Rumore d’un albero che cade lontano

in un bosco remoto dove nessuno in ascolto attende che piova.

Voci spezzate, portate dal vento, risucchiate da una gola calcarea nascosta tra le nubi.

Stormi sbattuti nel cielo d’ottobre dalla sorda vanità del solista,

che apre alla sera, cercando compagni tra le ombre più care.

Cuore tenebre aria fuoco; alimentano il silenzio d’un amore senza tempo.

Il pianto d’un bimbo che la madre non sente

sovrasta l’immobilità dei campi d’inverno e le case buie che attendono il ritorno di chi ha dimenticato.

Comodo sarebbe stato conoscere in anticipo le sorti del conflitto,

ma non esistono regole fatte dall’uomo capaci di generare tutte le possibili verità.

La folle illusione di sollevarsi tirandosi per i lacci delle scarpe, ci attira e ci consola.

Rivela avamposti al riparo dalla nebbia. Lasciati soli a fronteggiare fatali nemici venuti dal mare.

La presunzione chiude le spire del sogno più grande

sull’ultimo viaggio della mente dell’uomo.

L’ultima volta

 

L’ultima volta in braccio a mia madre. Il calore del suo collo. I capelli soffici e profumati tra le mie dita piccoline.

L’ultima volta che mi ha accompagnato a scuola a piedi. Il suo sorriso e il palmo della sua mano bianca.

L’ultima volta che ho giocato a pallone coi miei compagni di liceo. Un pomeriggio tardi d’ottobre con l’umidità che saliva dalla terra e i moscerini che ci entravano in bocca.

L’ultimo libro che ho portato via da casa dei miei.

L’ultimo sorso di birra con un amico in quel locale che poi ha chiuso.

L’ultimo bacio in quel cinema che poi è diventato un supermercato.

L’ultima colazione che mio padre ha preparato solo per me.

L’ultima notte in quella casa dove non ho più abitato, il rumore del motore dell’ascensore che un po’ mi manca e un po’ no.

L’ultimo viaggio con l’Opel Corsa bianca tre porte che allora mi sembrava la macchina più bella del mondo.

L’ultima fetta dell’ultima torta che mi fece mia nonna. La teglia vuota sul mobile della cucina che aspettava di essere lavata.

L’ultimo esame all’università che mi sogno ancora di non aver dato.

L’ultimo pannolino di mio figlio che ho cambiato. La sera che li ho finiti è stato lui a dirmi che forse non ne aveva più bisogno.

L’ultimo metro della gara di lumache.

L’ultimo sorso di quella grappa profumata che ho bevuto insieme a una donna bellissima che non ho più rivisto.

L’ultima volta che ho puciato i piedi su quella spiaggia bianchissima.

In fondo è sempre l’ultima volta per qualsiasi cosa.

Due quarti

 

L’odore agrodolce e primordiale del mare d’inverno; dipinge, la luna piena, un silenzio bluastro su preziose montagne di granito.

Su una nave in panne nell’Egeo spazzato dal Meltemi qualcuno mi chiede come mi sento; io avrei solo voglia di lasciarmi andare e seguire Marlin alla ricerca di Nemo.

Mi perdo tra le pieghe ancora calde del pigiama di mio figlio; glielo levo piano e lui sbadiglia ancora preso nel sonno.

Vorrei poter essere accanto a ognuno dei suoi pensieri di giorno e nei suoi sogni di notte.

Adoro la pizza, il pollo, le patatine; mi piacciono tutte le parole che cominciano per “P”.

Odio ragni scarafaggi e cimici, ma li invidio perché erediteranno la Terra.

L’alba impudente e opaca apparsa su un’amaca nella foresta amazzonica, mi ha sussurrato che avevo passato la notte con una “cucaracha” di un etto.

Vedo due corpi vicini dopo aver fatto l’amore. Di rimando un “anch’io”, detto a un “Ti amo” forse un po’ troppo presto. Forse il silenzio, senza il timore di vedere cosa si nasconde dietro la prossima curva.

Ascolto il respiro di Dio provenire dalla cascata più alta del mondo e mi specchio negli occhi color caffè di un Indio seminudo.

Mi prende la nausea di fronte all’abisso che si spalanca tra lui e lo stronzo che mi tallona a centosessanta all’ora sulla corsia di sorpasso facendomi i fari.

C’è la mano di un bimbo imbacuccato che si affida a quella dell’uomo mentre camminano sereni sul ciglio della strada; rido di colui che blocca la mia in una stretta eccessiva solo per dimostrarmi quanto è forte il legame con la sua vanità.