Autore: Rob

Come si fa a credere al teatro di questi tempi?

 

Che cos’è il teatro?

Qualcuno dice: il teatro è lo specchio della vita.

Qualcun altro: il teatro è una rappresentazione della realtà.

C’è addirittura chi dice, spingendosi un po’ più in là, che sia l’essenza stessa della vita.

Tre definizioni sicuramente stringate e riduttive, ma da cui emerge abbastanza chiaramente che abbiamo a che fare con qualcosa di estremamente potente e, forse proprio per questo, difficile da afferrare, descrivere, comprendere.

Letteralmente il teatro rimanda a qualcosa che “sto guardando”, a uno spettacolo dal vivo, qualcosa che, riducendolo all’osso, ha bisogno fondamentalmente di una persona che guarda e di un’altra che fa qualcosa. Non solo però. Sarebbe un po’ troppo facile…Perché succeda “qualcosa” che vada al di là del semplice fatto quotidiano, è necessario che quelle due persone (due o più) accettino di credere che quello che sta succedendo non sia strettamente “reale”, ma una sorta di reale di grado superiore, un simbolo collegato al nostro vissuto che ne amplifica enormemente il significato.

Per ottenere questo, è necessario infatti uno sforzo personale di abbandono, che faccia cadere temporaneamente le resistenze sia nei confronti di ciò che sta accadendo sulla scena, sia di ciò che è accaduto e che sta per accadere dentro di noi.

Coleridge la definiva “sospensione dell’incredulità”, ovvero la sospensione temporanea della capacità critica dello spettatore, al fine di entrare in relazione (credere) con l’opera di fantasia. Se non credi, non riesci a immedesimarti e a provare ciò che i personaggi provano e ciò che gli attori stanno cercando di esprimere. Una volta che “credi”, entri a far parte anche tu di quella dimensione che include contemporaneamente sia il reale che il fantastico, in un continuum dal quale è possibile entrare e uscire a piacimento.

Ciò che accade durante uno spettacolo teatrale, accade in quel momento, in quel luogo e in quel tempo, quindi è unico e irripetibile; proprio come dovrebbe esserlo ogni istante della nostra vita. Ma c’è di più. Il patto che si stabilisce tra attori e spettatori crea uno scambio, una specie di collegamento tra un lì e un altrove che attinge a tutto il mio bagaglio di vita passata, presente e futura; che io sia interprete o spettatore.

Gli attori, da parte loro, prendono il testo, le parole dell’autore, e gli danno vita in una sorta di rito liturgico a cui tutti partecipano e a cui tutti accettano di credere; loro per primi. Proprio loro infatti sono portatori della prima grossa contraddizione, essendo al tempo stesso immersi nel reale e nella dimensione fantastica del personaggio a cui stanno dando corpo. Sono contemporaneamente presenti e non-presenti a se stessi, come potrebbe esserlo uno sciamano o un monaco in meditazione.

Da un certo punto di vista, la parola che si fa carne e diventa vita (per me, per te, per tutti) rimanda ovviamente all’ambito religioso cristiano, in cui gli attori non sono altro che i sacerdoti che officiano il rito, permettendo il collegamento tra il mondo reale e quello fantastico, onirico, “divino”.

Tutto sommato, niente di nuovo, se paragonato ai riti più ancestrali della storia dell’uomo da quando è sceso dagli alberi fino ad oggi.

L’arma segreta del teatro, se così possiamo dire, è che, a differenza di un romanzo o di una poesia, in cui comunque la parola ha un ruolo centrale e in cui forse lo sforzo “immaginifico” è perfino superiore, entra prepotentemente nel mondo fisico reale nel momento stesso in cui l’attore dà vita al personaggio sulla scena. È l’attore che permette il collegamento tra i due mondi, quello reale e quello fantastico. Ed è proprio la risonanza tra questi due mondi, l’entrare e uscire dal reale al fantastico, ad amplificare l’effetto di immedesimazione, aprendo il collegamento con il reale di grado superiore, un reale che comunque attinge e si innesta sull’esperienza personale di tutti coloro che partecipano allo spettacolo, attori e spettatori. La scena di due amanti che si baciano sulla scena ci riporta a quella volta con il nostro primo amore nella cabina sulla spiaggia.

Se affrontato razionalmente, tutto questo sfocia ovviamente in una sorta di corto circuito mentale che mette a dura prova le nostre capacità di interpretazione. Verrebbe infatti da chiedersi: dove mi trovo in questo momento? È finzione o realtà? Quale faccia della medaglia sto guardando?

E questo probabilmente è dovuto al fatto che quando dobbiamo attingere alla nostra parte inconscia e al nostro vissuto, l’effetto di fastidio e disorientamento che ne deriva, tende a farci fuggire verso la nostra parte razionale che ci riporta immediatamente coi piedi per terra.

Il problema è che anche la ragione non sempre è in grado di darci tutte le risposte. E sulla base di cosa poi? Dei nostri sensi? Della nostra capacità logica? Delle parole che sto ascoltando?

Perfino il nostro linguaggio, se ci pensiamo bene, è fonte di ambiguità. Pensiamo a una frase come: “Questa frase è falsa”. Che cosa possiamo dire? E’ vera? E’ falsa? E’ entrambe le cose? I paradossi, di cui questa frase è forse l’esempio più semplice, esprimono bene il concetto di ambiguità che sta alla base di una condizione (o un’affermazione) di cui non sappiamo dire esattamente se sia vera o falsa. Questo perché anche il nostro linguaggio è limitato, specialmente quando tenta di descrivere se stesso o, come si dice, di autoreferenziarsi.

D’altra parte, succede anche il contrario: si possono anche costruire numerose frasi che non significano assolutamente nulla, ma che hanno un valore di verità ben definito (tautologie): “Questo foglio è bianco perché bianco”.

L’uomo, appunto perché non è Dio, non è in grado di produrre modelli “perfetti”.

Quando diciamo di indagare la “realtà”, in effetti stiamo investigando soltanto le proprietà dei “modelli” che abbiamo costruito per descrivere la realtà. E questo non soltanto in ambito linguistico o scientifico, ma anche filosofico, teologico, etico,…

Un altro esempio di corto circuito, forse il primo con cui l’uomo ha dovuto fare i conti, è legato al mondo onirico. Come facciamo a essere sicuri, quando sogniamo, che quello che ci sta succedendo non sia reale? O che ciò che viviamo nel mondo reale non sia in realtà un sogno? Pensiamo alle opere di Shakespeare, o film come Matrix, Truman Show…

Quindi, tutti noi, quando “viviamo”, non sperimentiamo la vera essenza delle cose, ma il loro modello di riferimento mediato attraverso i sensi, ed è per questo che la nostra mente fatica a distinguere tra sogno e realtà, perché effettivamente, ciò con cui abbiamo a che fare, tutti i giorni, è la percezione di un qualcosa in cui siamo immersi e di cui facciamo parte (la realtà), ma che comunque sta fuori di noi.

A questo punto la domanda che verrebbe da porci è: E’ possibile sapere sempre, a partire dalle condizioni in cui ci troviamo, se ciò che stiamo sperimentando è vero o falso? Ovvero in linea con ciò che stiamo percependo.

In altri termini: c’è un modo per accorgerci della differenza? Di qualcosa che non va? Di capire che cosa genera le ombre che vediamo sulla parete di fondo della caverna del mito di Platone.

Tutto lascia supporre che non ci sia.

Abbiamo già visto, per esempio in ambito linguistico (paradossi), che ciò non è possibile, non sempre per lo meno. E per quanto riguarda i sogni, spesso si confondono con la realtà e ci spingono a dubitare di noi stessi.

Un grande logico-matematico austriaco di nome Kurt Godel, nel 1931, è stato in grado addirittura di dimostrarlo matematicamente. Egli cioè, nel suo teorema di incompletezza, ha dimostrato che all’interno di un sistema formale (coerente), non è possibile dire di tutte le proposizioni derivanti dagli assiomi, se siano vere o false. C’è n’è almeno una di cui non possiamo dirlo con sicurezza. Ovvero, in alcuni particolari modelli costruiti dall’uomo per descrivere la realtà, c’è la chiave per dimostrare che non tutte le verità presenti in natura sono conoscibili mediante un percorso razionale che ci arriva. E, d’altra parte, utilizzando tutti gli strumenti che abbiamo messo sul tavolo per costruire questo modelli, potremmo arrivare ad affermare qualcosa e il suo contrario, senza sapere se abbiamo sbagliato qualcosa nel procedimento utilizzato oppure se è così perchè è così.

Quindi, perfino la matematica ci autorizza ad avere dei dubbi. O meglio, ci solleva proprio dal dubbio, affermando che è insita nelle proprietà stesse dei sistemi formali, l’incapacità di poter decidere sempre dove ci troviamo. È come se tutti i tentativi fatti dall’uomo di creare “modelli” per descrivere la realtà cadano miseramente in contraddizione nel momento in cui tentano di descrivere se stessi, ovvero di trovare una dimostrazione che li auto-sostenga, costituendosi come realtà alternative (sostituendosi) a quella reale a tutti gli effetti.

Se consideriamo il teatro come un modello che “simula” la realtà, quindi un modello reale che tenta di descrivere la realtà, non possiamo pensare di poterne venire a capo con la ragione, ma ci dobbiamo “credere”, mettendoci qualcosa che va al di là della semplice valutazione razionale basata sulle percezioni che arrivano dai sensi. Ed è appunto questo sforzo, questo mutuo scambio, questo entrare e uscire, che mi consente di riferirlo ad una realtà che non è (solo) quella cui sto assistendo in quel momento.

Un altro esempio interessante ci viene dal racconto “Flatland”, dove un essere a due dimensioni percepirebbe una sfera che attraversasse il suo mondo come un cerchio che taglia il piano bidimensionale cui appartiene. Ci vuole un certo sforzo per immaginare tutta la sfera (ancora il mito della caverna!). Bisogna crederci. E più lo sforzo è grande, più l’effetto di immedesimazione sarà efficace. Il problema è che, in alcuni casi, non sapremo mai se quella che stiamo osservando è una sfera che taglia il piano o solo un cerchio che abbiamo incontrato sul nostro cammino.

Il teatro, a differenza di altri tentativi di descrivere e racconatre la realtà (film, video, gli stessi libri), è uno degli strumenti più potenti che abbiamo. Esso infatti usa lo stesso linguaggio (genericamente inteso) della realtà: dialoghi, rumori, corpi, sguardi, emozioni, odori…., e lo sentiamo molto affine e complice nello sforzo che dobbiamo compiere, trasportandoci direttamente nel nostro mondo inconscio e irrazionale.

Ovviamente, come tutte le “rappresentazioni” o le liturgie, si avvale di convenzioni, codici, formule, strutture, che ci aiutano e ci proteggono, che ci guidano nel viaggio che stiamo intraprendendo verso l’ignoto, proprio come un rito, o come un gioco.

Non esistono infatti giochi senza regole. Se non ci sono regole e se non le accetto, non partecipo e non mi diverto. Quanto più credo al gioco che sto facendo, tanto più mi diverto e ho voglia di vincere il premio.

Oggi, le moderne macchine di simulazione della realtà hanno fatto passi da gigante nel tentativo di ingannare i nostri sensi, facendoci credere che stiamo vivendo un’esperienza più vera del vero. In un futuro vicinissimo, saranno perfino in grado di farci vivere esperienze virtuali di gruppo talmente reali che crederemo di essere in un certo posto, tutti insieme, a fare una certa cosa, o perfino ad assistere a uno stesso spettacolo, senza che ci rendiamo conto che ciò che accade sta accadendo veramente o se sia il parto di una macchina. A quel punto, per molti di noi, potrebbe anche non essere così importante cogliere la differenza, lo sforzo che dovremmo compiere per “immaginare” altro portebbe non valere la candela. Tuttavia, per quanto sofisticata e complessa, questa macchina, sarà pur sempre un modello creato dall’uomo, e quindi prevedibile, autoreferenziale, e come tale, incompleto.

Nessun sistema di simulazione creato dall’uomo, per quanto avanzato, potrà mai sostituire lo sforzo fisico, mentale ed emotivo che dobbiamo compiere quando accettiamo di prendere parte al duello di Amleto o all’ultima battaglia di Riccardo III.

Questo perché il teatro non vuole simulare la realtà ma, grazie alla sua doppia natura di realtà e finzione, contiene ancora un certo grado di imprevedibilità capace di far accadere ogni volta qualcosa di nuovo e personale, in quel momento, in quel luogo, frutto della fatica delle persone che vi partecipano e che vogliono godere insieme del premio finale.

 

In bilico sul tempo

 

Il sibilo dell’indifferenza

si spegne nel vortice singolare del tempo.

Rumore d’un albero che cade lontano

in un bosco remoto dove nessuno in ascolto attende che piova.

Voci spezzate, portate dal vento, risucchiate da una gola calcarea nascosta tra le nubi.

Stormi sbattuti nel cielo d’ottobre dalla sorda vanità del solista,

che apre alla sera, cercando compagni tra le ombre più care.

Cuore tenebre aria fuoco; alimentano il silenzio d’un amore senza tempo.

Il pianto d’un bimbo che la madre non sente

sovrasta l’immobilità dei campi d’inverno e le case buie che attendono il ritorno di chi ha dimenticato.

Comodo sarebbe stato conoscere in anticipo le sorti del conflitto,

ma non esistono regole fatte dall’uomo capaci di generare tutte le possibili verità.

La folle illusione di sollevarsi tirandosi per i lacci delle scarpe, ci attira e ci consola.

Rivela avamposti al riparo dalla nebbia. Lasciati soli a fronteggiare fatali nemici venuti dal mare.

La presunzione chiude le spire del sogno più grande

sull’ultimo viaggio della mente dell’uomo.

Percezione Maggiormente Ricorrente

Gli idealisti ci insegnano che la cosa in sé non esiste. Kant a suo modo e a suo tempo aveva minato fin nelle fondamenta la metafisica; Nietzsche l’ha uccisa del tutto. Eppure l’ordine che mettiamo nelle percezioni che abbiamo del mondo (dentro e fuori di noi) in forma di leggi, teorie, visioni del mondo, semplici preconcetti, deve ancor oggi (e suppongo per molto tempo ancora) fare i conti e ritornare docilmente a un “altro da sé”, senza timori o supponenza, anche solo per verificare se quello che abbiamo formalizzato ha un minimo riscontro con la realtà. È fin troppo rassicurante, pre-adolescenziale, pensare che la causa e il fine ultimo di ogni cosa stia solo dentro di noi o, ancor più ingenuamente, dentro il nostro pensiero. La maturità dell’uomo e della donna dovrebbe coincidere appunto con quest’ammissione d’impotenza, questo lasciarsi meravigliare sempre, almeno fino a quando non subentra l’ansia da prestazione o la rinuncia totale a capirci qualcosa. In questo continuo riflettersi tra visione e realtà (come due specchi che si riflettono l’uno dentro l’altro) l’uomo si pone antropocentricamente nel centro, appunto: copula mundi.

Nel caso particolare, potremmo pensare di raccogliere le percezioni di ognuno di noi in una sorta di matrice comune, derivante a sua volta da un comune modo di intendere e di ritornare alla realtà. Se per esempio limitiamo il campo a un solo individuo, una sola percezione per volta e al tempo (in cui siamo comunque immersi come pesci nel mare), potremmo tentare di definire una singola cellula di percezione come una matrice tridimensionale un po’ “flessibile”, avendo appunto individuo, percezione e tempo nelle tre dimensioni. Allargando poi lo sguardo all’intera umanità e alla molteplicità delle percezioni, si potrebbe allora parlare di matrice n-dimesionale che dovrebbe appunto aiutarci a stabilire un qualche tipo di contatto o relazione con ciò che più si avvicina alla cosa in sé senza esserlo (sia essa un oggetto, un fatto, un fenomeno scientifico, un generico accadimento del mondo).

Tale matrice sarebbe d’aiuto nel cercare di definire l’“essenza” della cosa, riconducendola a un concetto più probabilistico, a un’intersezione insiemistica di tutte le percezioni che ognuno di noi ha di quella cosa. L’intersezione di tali insiemi non vuoti racchiudenti la medesima “cosa” potrebbe allora immaginarsi come una porzione di spazio che potrà avere un’estensione variabile a seconda delle differenze di valutazione (o ancora percezione) da parte di tutte le persone del globo. E’ chiaro che se restringessimo il campo all’ambito scientifico e sostituissimo le percezioni con le osservazioni, queste differenze (o scostamenti) sull’essenza di ogni singola “cosa”, dovrebbero potersi ridurre quasi a zero. Badate bene, non sto cercando di riportare in vita la metafisica (ho esordito facendo ben intendere che probabilmente non ne è rimasta che polvere da Aristotele in poi). Quando parlo di essenza della cosa in ambito scientifico è chiaro che mi riferisco alla verificabilità (quindi falsificabilità) incontrovertibile di ogni singolo fenomeno scientifico che l’uomo mette sotto la lente del suo potentissimo microscopio razionale.

Per tutto il resto, potremmo pensare di rappresentare questa “percezione maggiormente ricorrente” PMR (o “Opinione Maggiormente Ricorrente” – OMR nel caso si tratti di informazioni che viaggiano per lo più in rete ormai), come una Gaussiana, ovvero la curva a campana che descrive la probabilità che un certo evento si verifichi. L’evento che ha la probabilità più alta di accadere è localizzato nel picco centrale della Gaussiana, e quanto più questo è alto e stretto, tanto più gente mette d’accordo. L’”essenza” probabilistica altro non è che la percezione (opinione) più ricorrente che ne hanno gli uomini, o le donne, o chiunque altro essere vivente dotato di un po’ di autocoscienza.

Ora, è chiaro che parlare di percezione, opinione e informazioni come fossero totalmente intercambiabili è una forzatura piuttosto grossolana; ovviamente si riferiscono a modi diversi in cui gli esseri umani acquisiscono o valutano “stimoli” esterni, ma cercate di fare uno sforzo, o un doppio salto mortale se preferite, e seguitemi fino alla fine del discorso. Quindi, dicevamo, questa percezione maggiormente ricorrente (PMR) non può che essere a sua volta influenzata dalla variabile tempo, visto che mutano appunto nel tempo sia le percezioni che le coscienze degli uomini. Se inoltre consideriamo l’utilizzo che oggi si fa delle informazioni (intese come pacchetti di dati che dobbiamo digerire al secondo), più che delle percezioni (intese come ciò che va a “stimolare” direttamente i nostri sensi, che interessava più i filosofi classici e moderni ma che forse non sarebbe male andare un po’ a riscoprire anche ai giorni nostri), nel farsi un’opinione della realtà, sia essa dentro o fuori di noi, sia essa virtuale o “tutto ciò che non è virtuale”, si capisce bene l’importanza di chiarire l’evoluzione che queste (le informazioni) hanno avuto nel corso del tempo.

Quanto più le nostre opinioni si basano su input derivanti da informazioni mediate, tanto meno saranno affidabili, e quindi fonte di errore e di fraintendimenti. Quanto più la Guassiana è stretta e alta, tanto più precisa sarà la PMR (OMR), e quindi univocamente definita da e per un gran numero di persone l’“essenza” di quella cosa. Quanto più la Gaussiana è larga e dispersa intorno alla media, tanto più vaga sarà la PMR, col risultato di avere più possibilità d’interpretazione per quello stesso fatto o fenomeno. Ciò cui assistiamo oggi, con la globalizzazione della cultura, è il restringimento delle gaussiane: ogni fatto, ogni bit d’informazione è ugualmente e immediatamente percepito-recepito da ogni essere umano del globo come “verità assoluta”. E non c’è apparentemente alcun modo di pensare (supporre, dubitare, intuire) che una cosa possa essere diversa da come ci viene riportata.

L’intersezione di infiniti insiemi si riduce a un punto infinitamente piccolo, che dovrà per forza rappresentare l’unica e sola PMR o OMR universalmente accettata (come vuole la scienza). L’intero globo terrestre si contrae in un unico punto d’accesso, a cui siamo connessi come tanti “clients” ad un unico server centrale. Non è più necessario essere depositari di nulla, tutto quello che ci serve per farci un’idea della realtà si trova da qualche parte stivato in un “server”. È l’orizzonte della memoria. L’oblio verso il quale ognuno di noi è accompagnato dal pilota automatico globale. L’effetto di levigatura e livellamento pone fine alla fatiche di millenni di ricerca metafisica e supporta gli uomini e le donne più indolenti nel definire in un determinato momento, ovvero al bisogno, quale sia la verità su qualsiasi “cosa” ci venga propinata. L’immediatezza e l’estrema facilità di accesso produce il tanto agognato e democratico schiacciamento della distanza tra percezione e realtà, riducendolo a un “epsilon” piccolo a piacere che mette d’accordo un po’ tutti.

 

 

 

 

Tautismo

Qualcuno, non io, ha coniato un neologismo curioso: ‘tautismo’, da una contrazione di autismo e tautologia. L’autismo, nella definizione più semplificata, è la malattia dell’autoaffermazione in cui l’individuo, ma anche le organizzazioni, non provano il bisogno di comunicare o di confrontarsi con gli altri, giacciono in una sorta di autosoddisfazione comunicativa, organica e ludica. Tautologia invece è quella forma retorica in cui soggetto e predicato sono uniti in un unico e identico concetto.

Potremmo quindi definire il tautismo come una sorta di autismo tautologico, un meccanismo che evoca una chiusura totale dell’individuo su se stesso che è insieme sorgente e pozzo di ogni sua tensione e pulsione verso un fuori che ritorna subito dentro. Linee di campo magnetico che ci riparano dalle influenze esterne come le fasce di Van Allen con il vento solare.

Perché?

Probabilmente non esiste una sola risposta. Bisognerebbe forse cercare indizi nella società, nella famiglia, nella scuola, nel mondo del lavoro,…Tutte entità che ci sono sempre state, ma che evidentemente hanno subito e subiranno ancora nei decenni a venire profondi cambiamenti mutando il loro rapporto con l’individuo che le popola e le vive.

Ciò che forse potremmo rilevare più facilmente è il paradosso che si è venuto a creare dopo l’avvento delle tecnologie che ci consentono di essere costantemente e continuamente connessi e collegati alla rete.

Tutto ciò moltiplica enormemente le nostre potenzialità comunicative: maggiore velocità di trasmissione, maggiore varietà di supporti, accesso distribuito, quasi totale uniformità del linguaggio digitale,…Tutto alimenta l’illusione di appartenere a una grande comunità e di sentirci meno soli.

Ciò di cui non sempre ci rendiamo conto è che a questo si accompagna un incessante rumore di fondo, un aumento del volume, una moltiplicazione degli stimoli, una ridondanza di messaggi a scapito della loro profondità.

Quindi, da una parte si va presto verso la saturazione (per forza!): diminuisce la capacità critica, crescono l’incapacità di ascolto e le difficoltà a sviluppare relazioni interpersonali autentiche.

Dall’altra si arriva a pensare che dopo tutto, e forse proprio in coseguenza di questo, del marasma che ci circonda possiamo anche fare a meno, visto che tutto il mondo può stare benissimo nella breve distanza che c’è tra me e il monitor.

Lo scenario che ci si prospetta è quello di finire soli e sordi in un universo di virtualità comunicative.

Ma l’uomo si adatta e si evolve da milioni di anni. Quindi aspettiamo di vedere che faccia avrà l’Homo sapiens post-informaticus….

 

Destinati a vivere

Supponiamo che al momento della nostra nascita ci venga consegnato il libro del nostro destino, talmente minuzioso e particolareggiato da riportare giorno per giorno quello che ci succederà.

Supponiamo ora di tenere un diario della nostra vita in cui, istante per istante, scriviamo quello che ci succede.

Alla fine della nostra vita, che differenza ci sarebbe tra i due volumi?

Al di là del fatto che il primo sarebbe solo un puro parto della nostra fantasia (fino a prova contraria), e l’altro solo uno sforzo immane e maniacale di tenere traccia della nostra esistenza, in linea del tutto teorica non dovrebbe esserci alcuna differenza. E questo forse per qualcuno potrebbe essere perfino rassicurante: se non c’è nient’altro da aggiungere vuol dire che ho fatto tutto quello che dovevo fare, niente di più, niente di meno. Nel bene e nel male.

Il problema è che molto probabilmente la vita non può essere ricondotta a una semplice teoria filosofica. E che ci sarebbe da augurarsi non solo che i due libri non coincidano, ma soprattutto che nessuno dei due libri esista, nemmeno per ipotesi.

Pensiamo se per assurdo passassimo tutto il tempo a scrivere quello che ci succede, minuto dopo minuto, anno dopo anno; non avermmo più tempo per vivere e non avremmo più niente da scrivere.

Tra quello di cui sto scrivendo e quello che mi succederà di lì a poco, non passa che un piccolo spostamento sulla mia geodetica dello spazio-tempo, sufficiente però a far sì che uno sia scritto sul diario e l’altro sull’ipotetico libro del destino.

Il destino deve essere sempre una pagina avanti a noi. E’ possibile che ci sentiremo spaesati, intrappolati tra la pagina che non abbiamo ancora scritto e che abbiamo già vissuto, e quella già scritta ma che non abbiamo ancora vissuto; ma è giusto che sia così. E’ proprio grazie a quella frattura che si può scegliere di vivere la propria vita e non quella scritta da qualcun altro per noi.

L’ultima volta

 

L’ultima volta in braccio a mia madre. Il calore del suo collo. I capelli soffici e profumati tra le mie dita piccoline.

L’ultima volta che mi ha accompagnato a scuola a piedi. Il suo sorriso e il palmo della sua mano bianca.

L’ultima volta che ho giocato a pallone coi miei compagni di liceo. Un pomeriggio tardi d’ottobre con l’umidità che saliva dalla terra e i moscerini che ci entravano in bocca.

L’ultimo libro che ho portato via da casa dei miei.

L’ultimo sorso di birra con un amico in quel locale che poi ha chiuso.

L’ultimo bacio in quel cinema che poi è diventato un supermercato.

L’ultima colazione che mio padre ha preparato solo per me.

L’ultima notte in quella casa dove non ho più abitato, il rumore del motore dell’ascensore che un po’ mi manca e un po’ no.

L’ultimo viaggio con l’Opel Corsa bianca tre porte che allora mi sembrava la macchina più bella del mondo.

L’ultima fetta dell’ultima torta che mi fece mia nonna. La teglia vuota sul mobile della cucina che aspettava di essere lavata.

L’ultimo esame all’università che mi sogno ancora di non aver dato.

L’ultimo pannolino di mio figlio che ho cambiato. La sera che li ho finiti è stato lui a dirmi che forse non ne aveva più bisogno.

L’ultimo metro della gara di lumache.

L’ultimo sorso di quella grappa profumata che ho bevuto insieme a una donna bellissima che non ho più rivisto.

L’ultima volta che ho puciato i piedi su quella spiaggia bianchissima.

In fondo è sempre l’ultima volta per qualsiasi cosa.

L’eterno ritorno

Capannoni, garages, scantinati; enormi vani dietro porte di ferro e vetro che non contengono più nulla. Dall’altra parte del cortile di sanpietrini un’altra porta, sempre in ferro ma più piccola e senza luce: il cesso.

Siepi di bosso rachitiche suddividono come possono il poco spazio disponibile dentro fioriere grandi come vasche da bagno.

All’interno, la carcassa è antica e geometrica: alti pilastri a sezione quadrata, soffitti a botte, a falde inclinate, chiuse su un lato da serrande sporche e sbrecciate in vetro retinato. L’acustica è pessima, ma sinceramente l’acustica, in questi casi, è veramente l’ultima cosa. Invece la luce del sole è sempre stata importante, anche d’inverno, poterne sfruttare fino in fondo anche l’ultima goccia rosata era una sapienza lontana che sapeva anche un po’ di stalla e di fieno ammuffito. Contorni fuligginosi impressi dal tempo raccontano un percorso tecnologico sulle piastrelle rettangolari o sull’intonaco grezzo che una volta doveva essere stato bianco. Scale, porte, ballatoi, tutto di ferro. Il cemento sui pavimenti, a vista o ricoperto di linoleum nero antiscivolo con le bolle, garantisce spostamenti rapidi e carichi sicuri. Tutt’intorno solidi muri destinati per legge “ad usum fabricae”.

Un tempo, uomini e donne erano impegnati a tornire, saldare, calandrare, filare, linotipare, avvitare, incollare, cucire. Gesti meccanicamente ripetuti all’infinito per accompagnare la materia alla forma prestabilita e trasformare maccheroni, minestroni, sformati, e cotolette in fiato, scoregge e sudore. Il processo produttivo che scorre parallelo al processo biologico e lo inghiotte nascondendolo.

Uomini e donne in continuo movimento, osservati, controllati, cronometrati. Proibito pensare. A vederli così, verrebbe da dire brulicanti, frenetici, eccitati, come insetti laboriosi; se non fosse che non sono insetti ma esseri umani, e che per anni hanno contato le lunghe ore del giorno e della notte che li separavano dalla fine. Il suono della sirena. Il cambio turno. Ahhh…lleluia!

Fuori di lì, ad attenderli, l’agognato riposo. Meritato? Di sicuro necessario. Come necessario era il movimento controllato e cronometrato là dentro. Uno necessario al processo biologico, l’altro a quello produttivo. Difficile il viceversa.

Quindi cena, ognuno secondo i propri gusti e le proprie possibilità; e poi a letto. Prima i bambini e poi i grandi. A dormire. O a fare l’amore. In silenzio. Per quanto possibile. Ah..ah…ah…lleluia. Questo prima che entrasse in casa la televisione, perché poi le voci hanno avuto un volto, e passando dalla cucina alla camera da letto ci si sentiva ancora un po’ osservati da quelle facce così famigliari e ben pettinate. Qualcuno nel cambio ci ha guadagnato, per qualcun altro è stata la rovina, sia davanti che dietro lo schermo.

Oggi comunque, non tutto è perduto. Per fortuna si è rinnovato e ricontestualizzato. In altri spazi o negli stessi, nuove opportunità si sono affacciate all’orizzonte del terziario. Viva il progresso che trasforma ancora una volta la materia, elevandola ora da semplice massa grezza e informe al suo nuovo stato di spirito pagano. La sublimazione della materia si stempera in un vapore tiepido e rassicurante, che è un’opera impalpabile e pure assolutamente necessaria. Parola chiave: progresso.

Chi non è al corrente sarà informato. Chi non accetta sarà riprogrammato. Chi non si uniforma verrà accantonato. Alla fine non potrà che convenire o rimanere al palo. Deriso. Isolato. I dinosauri sono stati annientati dalla fragorosa risata di un topo.

Gli stessi uomini e le stesse donne attendono ora pazienti la medesima fine seduti tutto il giorno dietro una scrivania di compensato, specchiandosi in un monitor piatto e opaco che li collega al mondo. O specchiandosi ognuno nella nuca dell’altro, nella sua cervicale, nei suoi pensieri. Proibito sudare. Il climatizzatore è di serie.

Le ore non si contano più. Non c’è bisogno. Giorno e notte si confondono in un’unica luce appiccicosa e bluastra, tremolante ed eterna, quasi rilassante.

Una volta fuori di lì, si rientra, in fretta, negli stessi antichi luoghi per una piccola silenziosa sgroppata che manterrà il motore lubrificato e scattante. Poca cosa, ma necessaria, al solito, al buon funzionamento del sistema e, soprattutto, col sorriso sulle labbra. A parte i consigli del medico, viene comodo anche solo per una doccia a scrocco e per nutrire il proprio ego con i difetti dei propri simili nudi negli spogliatoi piastrellati. Adesso per poter sudare si paga. Scolpire il proprio corpo maneggiando dischi, carrucole e bilancieri che sfidano questi sì la gravità, è un lusso e un piacere che siamo ben lieti di mostrare e di pagare. E di mostrare di pagare. Attenendoci scrupolosamente a percorsi e tabelle. Cronometrati. Senza barare, perché ora è davvero stupido e…contro-producente.

Tutt’intorno gli stessi muri, pavimenti e finestroni, ad ascoltare, osservare, annusare. Gli stessi, uomini, le stesse donne, la stessa puzza.

Due quarti

 

L’odore agrodolce e primordiale del mare d’inverno; dipinge, la luna piena, un silenzio bluastro su preziose montagne di granito.

Su una nave in panne nell’Egeo spazzato dal Meltemi qualcuno mi chiede come mi sento; io avrei solo voglia di lasciarmi andare e seguire Marlin alla ricerca di Nemo.

Mi perdo tra le pieghe ancora calde del pigiama di mio figlio; glielo levo piano e lui sbadiglia ancora preso nel sonno.

Vorrei poter essere accanto a ognuno dei suoi pensieri di giorno e nei suoi sogni di notte.

Adoro la pizza, il pollo, le patatine; mi piacciono tutte le parole che cominciano per “P”.

Odio ragni scarafaggi e cimici, ma li invidio perché erediteranno la Terra.

L’alba impudente e opaca apparsa su un’amaca nella foresta amazzonica, mi ha sussurrato che avevo passato la notte con una “cucaracha” di un etto.

Vedo due corpi vicini dopo aver fatto l’amore. Di rimando un “anch’io”, detto a un “Ti amo” forse un po’ troppo presto. Forse il silenzio, senza il timore di vedere cosa si nasconde dietro la prossima curva.

Ascolto il respiro di Dio provenire dalla cascata più alta del mondo e mi specchio negli occhi color caffè di un Indio seminudo.

Mi prende la nausea di fronte all’abisso che si spalanca tra lui e lo stronzo che mi tallona a centosessanta all’ora sulla corsia di sorpasso facendomi i fari.

C’è la mano di un bimbo imbacuccato che si affida a quella dell’uomo mentre camminano sereni sul ciglio della strada; rido di colui che blocca la mia in una stretta eccessiva solo per dimostrarmi quanto è forte il legame con la sua vanità.

Una corsa al parco

 

Questa è la storia di cinque bambini, tutti maschi, tra i sette e i nove anni. È un bel pomeriggio di giugno, la scuola è finita da un paio di giorni e si ritrovano tutti insieme a giocare al parco. Le loro mamme li tengono d’occhio da lontano, sedute su due panchine vicine; intanto chiacchierano. I cinque amici hanno appena finito di mangiarsi ognuno il suo bel cono gelato: cioccolato, stracciatella, pistacchio, crema, fragola, con i relativi incroci. Visto che gli è venuta sete, il più grande dice: perché non ci facciamo una corsa intorno al parco? Il primo che arriva beve per primo alla fontanella. L’ultimo per ultimo. Gli occhi dei cinque amici passano velocemente in rassegna quelli di tutti gli altri, soprattutto quelli di R, che ha otto anni ma che è il più veloce di tutti. Loro lo sanno, lui pure. Alla fine decidono per il sì, e il più grande s’incarica di dare il pronti, partenza, via! Dopo soli dieci metri, R è già due metri avanti a tutti, e gli amici, tra l’incredulo e il rassegnato, non possono far altro che tenere gli occhi puntati sulla sua maglietta a righe bianche e blu, sperando in un miracolo. Se lo ricordavano veloce, ma non così; le braccia e le spalle spingono giù in basso e un po’ in fuori come se stesse spostando acqua invece che aria e le gambe, che girano veloci come quelle di Beep-Beep di Wile Coyote, sollevano piccole nuvolette di polvere dove i piedi toccano terra. Alla prima curva R li precede di quasi tre lunghezze, e agli inseguitori non rimane che lottare per la seconda posizione. Il parco scorre velocemente ai lati di R. Passa alla sua destra gli scivoli, le altalene, la carrucola sul filo d’acciaio, a sinistra tiene la siepe che delimita il parco. Improvvisamente, quasi senza rendersene conto, abbassa lo sguardo e si ferma. Butta fuori tutta l’aria e torna indietro di qualche passo. Si china come per raccogliere qualcosa e, ancora ansimando, s’acquatta sul ciglio della stradina infischiandosene di tutto e tutti. Gli altri quattro non ci possono credere. Sono su di lui in un baleno, uno dopo l’altro. All’inizio sembrano fermarsi, o almeno questo è quello che fa il secondo, e il terzo, gli si fanno intorno per vedere che diavolo c’è di così interessante da mollare a quel modo una gara già vinta. Ma poi arriva il quarto e il quinto, cui non importa un accidente di capire cosa stia succedendo e anzi, passando, si sentono pure in diritto di tirare una scoppola ai due che s’erano fermati, nella speranza a questo punto di giocarsela loro due. A questo punto però, quelli che s’erano fermati con R, un po’ per la sberla e un po’ vedendo che in fondo rimane ancora quasi mezza gara da correre, ripartono all’inseguimento più veloci che possono. A pochi metri dal traguardo riescono addirittura a riprenderli e a superarli, restituendo la scoppola con relativi interessi. Quando dopo molto tempo R li raggiunge, gli altri quattro hanno già bevuto a sazietà e se ne stanno seduti nell’erba con la pancia piena d’acqua. Guardando R che si rimira tra le mani un mazzolino di margherite e un sasso luccicoso che brilla al sole come un diamante grezzo, uno di loro gli chiede: ma perché ti sei fermato? Al che R, mostrando quello che ha in mano, risponde: perché sono belli.

 

 

Vanità primaverili

 

Per dire, i bambini…L’altro giorno ero al parco con mio figlio, sette anni, e lui, guardandosi un po’ in giro, mentre leccava un cornetto mi fa: “Sai papà, secondo me, quelli che vanno in giro senza maglietta non hanno tanto caldo, lo fanno solo per farsi vedere i muscoli”. Era una giornata bellissima, cielo cobalto, milioni di Watt di sole splendente e una brezzolina appena appena che toglieva qualsiasi traccia d’indolenza dalle ossa. Dall’alto dei trentasette anni che ci separano ho subito pensato al giudizio, alla morale, a Narciso, al comune senso del pudore…centinaia, se non migliaia di anni di sovrastrutture e regole più o meno scritte che ci dicono, o dovrebbero dirci in ogni momento, cosa sta bene e cosa non sta bene fare. Specialmente in pubblico. Quindi, così a caldo, ho pensato: cazzo, ha ragione, ma sei ridicolo, e mettitela ‘sta maglietta, dove credi di essere? In spiaggia? Sì bravo, la tartaruga e i pettorali li abbiamo visti tutti, ora però puoi pure rimettere via tutto e lasciarci godere in santa pace le barchette dell’idroscalo.

Perché in effetti è così che funziona: tu sei lì tranquillo che ti godi il tuo gelato con le barchette che fanno avanti e indietro sull’acqua sbarluccicante, e questo qui fa finta di correre in mezzo alla calca del sabato pomeriggio mettendo in mostra la mercanzia. E così tu lo guardi, per forza lo guardi; perché a quel punto le barchette e le paperelle passano in secondo piano e non ti bastano più. Che tu sia maschio o femmina, adulto o bambino, gay o etero, vieni rapito, o ditratto, o disturbato, o quello che vi pare, da quel corpo sudaticcio che s’infila trionfalmente tra te e il mondo.

E infatti, stavo quasi per trovare qualcosa di intelligente da dire a mio figlio, qualcosa che gli desse prova di quanto suo padre fosse saggio e tollerante, o rigido e bacchettone, a seconda dell’ispirazione, che lo becco che sta già tormentando una formica atomica sul tavolino di plastica a cui siamo seduti. Per la serie, sì vabbè, hai visto quello, papà, ma guarda adesso quant’è figa questa formica che mi vuole fregare i pezzettini di cialda. Allora, invece di dire qualsiasi cosa, mi sono sollevato a una ventina di metri da terra e ho aperto lo sguardo su ciò che stava realmente accadendo tutt’intorno. Ed è stato un attimo. Mi son detto: ma che…ma che altro è la primavera, il sole caldo, il cielo altissimo per chilometri sopra di noi, se non un’esplosione di vanità?Un’esplosione di energia che travolge tutto e tutti resettando i cicli vitali sopiti da mesi, facendoli ripartire a passo di carica. Alberi, fiori, uccelli, insetti, uomini e donne, si ritrovano finalmente vicini liberi di toccarsi e annusarsi dopo i pudori e i minimalismi invernali. Non è meraviglioso? Non è vitale?

La vita stessa è vanità. Perfino scrivere è vanità, o dipingere, o progettare la torre Eiffel. Tutte le volte che facciamo qualcosa sperando che qualcun’altro ci guardi, o ne sia impressionato, o ci dica: bello! automaticamente ci poniamo in relazione con i nostri simili cercando l’approvazione. L’uccellino nel nido che spalanca il più possibile il becco giallo travolgendo i fratellini, lo fa per farsi notare dai genitori e ricevere in premio il verme più grosso. E quasi sempre l’ottiene. E’ vanitoso? Boh! Ogni slancio, ogni iniziativa, ogni nuova idea è, per definizione, vanitosa, o vanit-aria, che suona ancora più fresca e prorompente.

Ostentarsi è una vocazione primaria di tutto ciò che esiste, o meglio, che vuole esistere. Poi noi, giustamente, dall’alto della nostra saggezza di uomini e donne maturi, spaventati da tanta potenza dirompente, ci mettiamo dei paletti col recinto e tutto, tentando d’imbrigliare quell’esuberanza ormonica e adolescenziale che rischia l’autocombustione. Anzi, con un occhio un po’ più egoistico, rischia di travolgere anche noi relegandoci in soffitta con le palline di naftalina nelle orecchie.

Con questo non sto dicendo che dobbiamo andare in giro nudi o ad accoppiarci nei prati (almeno non di giorno…), sto dicendo che, come spesso accade, guardare di tanto in tanto le cose con gli occhi meravigliati e trasparenti di un bambino, non può che predisporci a un nuovo modo di vedere e di percepire il mondo, che è poi la sola strada per intravvedere il cambiamento.